In questi racconti l’argentina Samanta Schweblin non dà pace al lettore. Non mette nessun unguento sulle ustioni: la perdita di persone care, la violenza emotiva, la malattia, la sensazione di essere stati espropriati, l’egoismo. Questa scelta implica un rischio elevato in un’epoca in cui parte del successo letterario e commerciale di uno scrittore consiste nell’abilità di distillare il lato buono delle cose e presentare le crisi come opportunità. Le storie di Sette case vuote si muovono lungo la linea tra la veglia e il sonno. Alcune sembrano incubi diventati realtà. Nella tradizione di quei racconti dell’orrore che sono allo stesso tempo magnifici racconti realistici (e viceversa), la realtà è sfiorata dal suo rovescio fantasmagorico e il fantastico si annida nei lati oscuri del reale. Schweblin ci porta verso una sensazione di disagio che si allarga fino alla nausea. Forse la perla di Sette case vuote è il racconto in cui Lola, una donna anziana, evoca continuamente la morte facendo liste, impacchettando le sue cose in scatole, dando alla sua vulnerabilità una dimensione maligna: aspetta il marito raggomitolata nel letto, prolungando artificialmente il suo malessere, in modo che l’uomo si senta in colpa. Lola, ossessiva e dedita al controllo, vedrà la sua vita ridursi a un’eterna ripetizione della perdita e dello smarrimento. Marta Sanz, El País
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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati