Il secondo lungometraggio di Kira Kovalenko (premiata a Cannes nella sezione Un certain regard) conferma la fertilità della scuola di cinema creata da Aleksandr Sokurov a Nalčik, sua città natale nel Caucaso. Ada ha molti punti in comune con Tesnota di Kantemir Balagov, altro fuoriclasse cresciuto alla corte di Sokurov. Come il film di Balagov, è prima di tutto un luogo: una piccola città mineraria nell’Ossezia del nord, in Russia, un non luogo dove non succede niente eppure succede tutto. Ada (Milana Aguzarova) vive con il padre e il fratello. Un altro fratello che si è trasferito a Rostov si riunisce a loro. Il percorso polveroso e insignificante che Ada compie per andare al lavoro (in un negozio) materializza il soggetto del film: il desiderio della ragazza di fuggire, frenato dalla sua indecisione e dalla sua confusione. Il film sembra costruito nel segno della malattia: la protagonista soffre dello stesso male oscuro che ha colpito la madre e che sembra prima di tutto una sofferenza interiore. Senza punti di riferimento psicologici, i rapporti tra i componenti della famiglia si esprimono in una messa in scena molto fisica e tesa, concentrata sui corpi (altro punto in comune con Tesnota). E poi Ada lascia immaginare che il male abbia anche radici politiche e non si può non pensare al massacro di Beslan. Così la fragilità della ragazza diventa l’espressione dei rapporti avvelenati tra alcuni popoli del Caucaso e il potere di Mosca.
Ariel Schweitzer, Cahiers du cinéma

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati