Negli anni ottanta gli uomini statunitensi si fecero crescere i capelli, indossarono i pantaloni di spandex e i top corti, si truccarono gli occhi ed entrarono in gruppi heavy metal senza alcuna paura di mettere in discussione la propria mascolinità. Cantavano canzoni d’amore e distruzione, ispirandosi a band degli anni sessanta come Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple, ma anche a quelle degli anni settanta come Judas Priest, Van Halen e Kiss. Mescolavano un’estetica androgina con un’iconografia blasfema che diventò la voce della ribellione contro Ronald Reagan. Anche se alcuni artisti heavy metal diventarono delle superstar, la maggior parte di loro no. Ma questo non impediva ai meno fortunati di seguire il percorso tracciato dalle band punk: esercitarsi nel garage, pubblicare album indipendenti e organizzarsi da soli i tour. Con il suo nuovo libro, Heroes of the metal underground. The definitive guide to 1980s American independent metal bands, Alexandros Anesiadis traccia il profilo di gruppi provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti che non avevano conquistato i primi posti delle classifiche ma avevano raggiunto la fama nella loro città natale. Organizzato per regione, il libro presenta un’istantanea dell’epoca in tutta la sua gloria sconosciuta, che mostra un’abbagliante serie di nomi provocatori di gruppi come Murder Suite, Diamond Claw, Ruff­kut, Heathen’s Rage e Kryst the Conqueror.
Miss Rosen, Blind

Ruffkut, 1984 (Feral House)

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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati