L’ottimismo su un’evoluzione positiva dei diritti civili in Iran (in particolare sulla condizione delle donne) con cui è stata accolta in alcuni circoli occidentali la vittoria di Masud Pezeshkian alle presidenziali del luglio 2024 è stato smentito dalle cifre sulle condanne a morte inflitte dal regime degli ayatollah.
L’arrivo di un politico considerato moderato e riformista non ha evitato che la pena capitale continuasse a essere applicata come misura repressiva in modo sistematico. Inoltre, denunciano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, nel 2024 lo stato iraniano ha ucciso più donne che nei precedenti 17 anni. Secondo le Nazioni Unite, l’anno scorso il regime ha fatto impiccare almeno 901 cittadini. Tra questi, riporta l’organizzazione Iran human rights, c’erano 31 donne; nel 2023 erano state 21 e nel 2022 sedici. I reati per cui è prevista la pena capitale vanno dall’omicidio al traffico di droga, ma sono compresi anche i crimini contro lo stato e lo spionaggio. Il paese in cui aumentano così tanto le condanne a morte inflitte alle donne è retto da un regime che ha represso nel sangue le proteste nate a settembre 2022 dopo l’omicidio di Mahsa Jina Amini, arrestata con l’accusa di non indossare correttamente il velo.
A questo bisogna aggiungere una legislazione sul velo ancora più restrittiva, che prevede la pena di morte, la flagellazione e il carcere. La nuova legge approvata nel 2024 è stata sospesa a febbraio e il governo iraniano ha dichiarato che in questo modo è stata mantenuta una promessa elettorale di Pezeshkian. Di sicuro c’è che il malcontento nei confronti del regime, aggravato dalla crisi economica, cresce inesorabilmente, mentre si rafforza l’impegno delle iraniane contro l’imposizione del velo islamico, nonostante la brutale repressione e il costante rischio di finire sul patibolo. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 15. Compra questo numero | Abbonati