Lilian (Foster) è una psichiatra di successo. Quando scopre che una sua paziente (Virginie Efira) è morta, è combattuta tra ciò che le detta la sua ragione (un distacco che Jodie Foster, nei panni di una professionista che perde le sue certezze, rende divertente e commovente) e i segnali che le arrivano anche dal suo corpo (i suoi occhi cominciano a lacrimare in modo incontrollabile). Rebecca Zlotowski non tiene segreta a lungo questa repressione: durante una seduta di ipnosi Lilian accede al suo subconscio e a un mondo di fantasie in cui lei vive un idillio passionale con la donna scomparsa. Da quel momento, nonostante una trama in cui Lilian le prova tutte per sviare l’attenzione, vediamo solo una cosa: l’emancipazione lesbica. La regista si diverte molto (e noi con lei) in questo finto thriller spensierato e frenetico, con una struttura a incastro che fa pensare a Woody Allen (Misterioso omicidio a Manhattan), Hitchcock (Vertigo) e George Cukor (Angoscia). Da quest’ultimo Zlotowski prende in prestito la trama principale (la morte di una ricca signora e qualcuno che cerca di mettere a tacere i sospetti della nipote), ma ne sovverte i toni misogini. Mentre Cukor rappresentava “l’arte di mettere a tacere le donne” (come ha scritto Hélène Frappat in Gas-lighting) facendole passare per folli, l’obiettivo di Zlotowski è di farle parlare, sia con se stesse sia con gli altri. In questo meccanismo di sovversione, incredibilmente piacevole, la regista ridefinisce le convenzioni di alcune commedie e desacralizza le gerarchie dell’amore per celebrare la tenera passione di un’amicizia tra uomo e donna.
Marilou Duponchel, Les Inrockuptibles

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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati