Se c’è un aspetto della Brexit che mette d’accordo gli esperti britannici è che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha danneggiato economicamente il paese. Il problema è solo capire l’entità del danno. Alla London school of economics ci provano da tempo. In uno studio pubblicato il 1 dicembre i ricercatori dell’istituto si sono chiesti se i prodotti alimentari siano diventati più cari in seguito alla Brexit. La risposta è stata: sì, nettamente più cari. Dopo l’uscita dall’Unione europea, affermano, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 3 per cento all’anno. “Il Regno Unito è passato da buone relazioni commerciali con pochi ostacoli a complesse procedure con controlli e moduli per far entrare le merci”, ha detto Richard Davies, uno degli autori dello studio. Sia gli esportatori europei sia gli importatori britannici hanno scaricato sui consumatori almeno la metà dei costi aggiuntivi legati alla Brexit.

Studi come questo hanno acceso un dibattito nel paese: come fare i conti con le conseguenze economiche dell’uscita dall’Unione? Se finora se n’è discusso poco, la colpa è soprattutto della politica. A lungo la Brexit è rimasta un tabù, un tema che i conservatori hanno semplicemente evitato. Ma ora è tornata a essere un argomento di discussione a Westminster, soprattutto da quando circola la notizia che il primo ministro Rishi Sunak vorrebbe riallacciare strette relazioni commerciali con Bruxelles. I sostenitori della Brexit hanno subito protestato indignati, e Sunak ha dovuto smentire le voci.

Quindi la questione è risolta? Per niente. Secondo l’Office for budget responsibility (Obr, un’agenzia indipendente che analizza le finanze pubbliche), nel lungo periodo la Brexit farà calare la produzione economica britannica del 4 per cento. Il cancelliere dello scacchiere Jeremy Hunt ha detto di non credere a questi dati, sottolineando invece i vantaggi che arriveranno dai nuovi accordi commerciali resi possibili dalla Brexit. Però c’è un problema: difficilmente gli accordi con gli Stati Uniti e l’India annunciati dai sostenitori della Brexit arriveranno presto, ammesso che arrivino. Mentre quelli già conclusi, per esempio con il Giappone e l’Australia, difficilmente manterranno le promesse iniziali. L’accordo commerciale con l’Australia dovrebbe incidere sull’economia solo per lo 0,08 per cento del pil.

Le prospettive per il Regno Unito sono piuttosto fosche. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nei prossimi due anni il paese dovrebbe registrare la crescita più bassa del G20, Russia esclusa. È probabile che la causa di queste previsioni sia in larga parte la Brexit. Per Thomas Sampson, un altro economista della London school of economics, da quando è stata completata la Brexit gli scambi commerciali del Regno Unito con l’Unione europea sono diminuiti del 15 per cento. L’ambasciatore tedesco a Londra, Miguel Berger, ha condiviso su Twitter un grafico che riporta i più importanti partner commerciali tedeschi nel tempo. “Il Regno Unito era tradizionalmente il quinto partner commerciale della Germania. Nel 2022 non sarà più tra i primi dieci”, ha scritto Berger.

Una tempesta

Il problema è che chiunque discuta con i numeri alla mano non ha vita facile nel dibattito sulla Brexit, animato soprattutto dalle emozioni. Ne sa qualcosa Mark Carney, l’ex capo della Banca d’Inghilterra. In un articolo sul Financial Times ha usato un paragone che ha infastidito i sostenitori della Brexit. “Mettiamola così”, ha scritto Carney, “nel 2016 l’economia britannica era un buon 90 per cento di quella tedesca, ora è meno del 70 per cento”. Si è scatenata una tempesta. Eppure il confronto di Carney è ancora un argomento discusso, per esempio nell’associazione dell’industria automobilistica. Un manager del settore ha dichiarato: “Sappiamo tutti che la Brexit ha reso il nostro paese più povero. Ora si tratta di trarne il meglio”.

Dal punto di vista economico, la cosa migliore sarebbe allentare le regole sull’immigrazione, diventate più severe dopo la Brexit. Secondo le aziende, nel Regno Unito non c’è abbastanza manodopera per soddisfare le esigenze di molti settori. Particolarmente ricercati sono i macellai, i camionisti e i lavoratori della gastronomia. L’economista Charles Good­hart ritiene che il sistema di visti introdotto dal governo non soddisfi le esigenze dell’economia. “Non abbiamo bisogno di persone qualificate, ce ne sono abbastanza. Ci servono persone che svolgano i lavori che i britannici non vogliono fare”, ha detto in una recente conferenza.

Ma questo punto di vista non è condiviso dal governo, soprattutto dal ministero dell’interno, il quale fa notare che nella prima metà del 2022 il Regno Unito ha registrato il più alto numero di immigrati di sempre. Questo record si spiega soprattutto con il fatto che molti studenti stranieri sono arrivati solo ora, dopo aver cominciato gli studi online durante la pandemia di covid-19.

Altre persone hanno cercato rifugio nel Regno Unito dall’Ucraina, dall’Afghanistan e da Hong Kong. La ministra dell’interno Suella Braverman ha elogiato la “generosità del popolo britannico”, ma ha promesso di continuare a lavorare per mantenere il controllo sui confini, riconquistato dopo la Brexit. ◆nv

Da sapere
Segni di pentimento

◆ Sei anni e mezzo dopo il referendum sulla Brexit del 2016, tre anni dopo l’uscita formale dall’Unione europea e due anni dopo la firma di un accordo commerciale con Bruxelles, nel Regno Unito molti si stanno pentendo della scelta, scrive il New York Times. “Il motivo è chiaro: la crisi economica più grave dell’ultima generazione, di certo peggiore di quella sperimentata dai vicini europei. Non tutto ovviamente è riconducibile alla Brexit, ma i sofferti rapporti con il resto d’Europa hanno svolto indubbiamente un ruolo e hanno reso la scelta di uscire dall’Unione un ottimo bersaglio per i cittadini ansiosi di trovare qualcosa con cui prendersela per la situazione attuale”. Secondo un sondaggio condotto di recente dalla società di ricerche YouGov, solo il 32 per cento dei britannici pensa che la Brexit sia stata una buona idea. Il 56 per cento, invece, sostiene che sia stato un errore. Tra chi nel 2016 ha votato a favore dell’uscita dall’Unione europea, solo il 70 per cento continua a credere di aver fatto la scelta giusta, mentre negli ultimi mesi i brexiter pentiti sono passati dal 4 al 19 per cento. Tra chi ha votato per restare in Europa il 91 per cento continua a pensare che la Brexit sia sbagliata e solo il 5 per cento dichiara di aver cambiato idea.


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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 115. Compra questo numero | Abbonati