Che sensazione terribile assistere da vicino al tracollo di un paese. Sapevamo che ci saremmo schiantati contro un muro, che l’urto sarebbe stato di una violenza inaudita, e che non sarebbe rimasto granché del Libano del dopoguerra. Ma non per questo i sentimenti che suscitano questi avvenimenti quando accadono sono meno forti. Non si è mai preparati al peggio. Il Libano sta morendo sotto i nostri occhi e non possiamo farci niente. La popolazione s’impoverisce. Il paese sta tornando indietro. Le scuole sono a rischio. Le imprese chiudono. I giovani, quelli che possono, se ne vanno. Lo stile di vita “alla libanese” è minacciato come mai in passato, neanche durante la guerra civile.
Non stiamo assistendo a una semplice crisi economica né all’ennesimo disastro politico; ma al tracollo di un castello di carte che, nonostante le sue fragilità e i suoi difetti, abbiamo voluto considerare una nave inaffondabile.
Quanto tutto crolla, si cercano i colpevoli. Ognuno ha la sua teoria su chi ha le maggiori responsabilità, a seconda delle convinzioni politiche. Il partito sciita Hezbollah, colpevole di essersi svincolato dalle regole dello stato mentre lo prendeva in ostaggio per fare i propri interessi. I sostenitori dell’ex primo ministro Saad Hariri, colpevoli di aver promosso una visione neoliberista dello stato e di non aver cancellato le vecchie abitudini clientelari. La classe politica, colpevole di essersi servita dello stato invece di essere al suo servizio. Il governatore della Banca centrale, Riad Salamé, colpevole di aver alimentato una voragine finanziaria mentre ripeteva “va tutto bene”. Le banche, colpevoli di essersi arricchite finanziando uno stato completamente disfunzionale.
Tutti sono responsabili della situazione attuale, seppure in misura diversa. Anche la popolazione, o almeno una parte. Sono libanesi quelli che da decenni, per convinzione o per interesse, eleggono gli stessi politici, senza mai chiedergli conto delle loro azioni. Sono sempre dei libanesi, non necessariamente gli stessi, quelli che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, che hanno fatto del possesso materiale l’unico criterio di distinzione sociale, che trovavano normale sfruttare tassi d’interesse almeno quattro o cinque volte superiori rispetto agli altri paesi. Sono ancora dei libanesi quelli che hanno approfittato delle reti clientelari e dell’assenza dello stato, che hanno preferito la logica settaria allo spirito nazionale, che hanno partecipato alla distruzione del paesaggio e alla fiera della cementificazione.
45 % della popolazione libanese vive sotto la soglia di povertà.
L’idea non è mettere tutti sullo stesso piano né demolire ogni cosa, ma solo ricordare che il fallimento è collettivo, sia se abbiamo partecipato alla distruzione politica, economica, culturale e ambientale del paese sia se non abbiamo fatto abbastanza per evitarla. Ma tutti ci siamo lasciati cullare dall’illusione che un paese potesse funzionare senza stato, che un’economia potesse restare solida senza produrre nulla, che una società potesse accettare di tutto pur di preservare la pace sociale. La “resilienza” libanese giustificava tutto: era l’argomentazione adatta per tutti quelli che non volevano cambiare niente o che pensavano che niente potesse essere cambiato. In un certo senso, non avevano torto. È quasi un miracolo che il Libano abbia resistito tutto questo tempo, anche se dall’altro lato si potrebbe rispondere che il conto sarà ancora più doloroso.
Il potere e la milizia
Quale paese al mondo può reggersi in piedi dovendo affrontare tutte queste deficienze strutturali e sfide congiunturali? È presuntuoso voler essere la Svizzera del Medio Oriente quando la logica settaria prevale sullo spirito nazionale, quando i vicini sono la Siria di Bashar al Assad e lo stato israeliano di Benjamin Netanyahu, e quando il paese è preso in ostaggio, con il suo consenso, dal braccio di ferro regionale tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Ma il disastro libanese è innanzitutto il risultato dei nostri errori. Merita un’autopsia per quanto è ricco di lezioni sulle cose da non ripetere. Gli esempi sono molti, ma tre meritano un’attenzione particolare.
Il primo problema è un potere politico onnipresente, eppure senza potere. Quella che definiamo classe politica ha le mani ovunque – nella giustizia, nell’amministrazione, nel settore bancario, nei mezzi d’informazione eccetera – ma è incapace di prendere decisioni fondamentali sulla politica del paese. La ricerca del consenso sul minimo denominatore comune è l’unico modo di governare che conosce. Ne risultano trattative interminabili su questioni minori e blocchi che diventano tabù sulle questioni importanti. Giustamente le piazze rimproverano alla classe politica di essere corrotta e incompetente. Ma il vero problema è ancora più profondo.
Se negli anni il Libano è stato incapace di definire chiaramente la sua politica estera o quella economica non è a causa dell’incompetenza o della corruzione della sua classe dirigente, ma di un modello di governo in cui tutti hanno ufficialmente il potere, ma alla fine nessuno ce l’ha davvero. Almeno dall’uccisione dell’ex primo ministro Rafiq Hariri in poi nessun politico libanese ha avuto una base abbastanza solida da poter prendere una decisione importante per il paese. Ognuno tenta di guidare la nave, ma nessuno è in grado di tenere il timone. I politici lottano per salvaguardare questo modello, ufficialmente con l’obiettivo di preservare la pace sociale, in realtà perché è l’unico che può garantirgli la sopravvivenza. Sono solo capi tribù che si servono dello stato per alimentare le loro comunità o regioni, e che trasformano il Libano in una confederazione di clan senza altro progetto comune che quello di spartirsi la torta.
Il secondo problema è la presenza di una milizia finanziata, addestrata e armata da un paese straniero all’interno di uno stato che, in un contesto regionale in fermento, dovrebbe come minimo basare la sua politica estera sulla strategia di prendere le distanze da tutti. Hezbollah è il problema fondamentale e il più difficile da risolvere per il Libano, perché può decidere la pace o la guerra indipendentemente dagli interessi del paese; perché quando lo ritiene opportuno usa la minaccia delle armi per orientare le decisioni dello stato in suo favore e per ignorare le regole comuni; perché è intervenuto in Siria in soccorso di un regime che ha sempre calpestato Beirut; perché il suo capo Hassan Nasrallah attacca i paesi del Golfo da cui dipende l’economia libanese.
Ma il movimento serve anche da paravento, da scusa per quelli che l’accusano di tutti i mali dimenticando di essere loro stessi parte del problema. La presenza di questo alleato dell’Iran è in contrasto con la costruzione di un nuovo Libano stabile, florido e basato sullo stato di diritto. Ma anche se la questione di Hezbollah fosse risolta (il che richiederebbe uno stravolgimento regionale e una maggiore integrazione degli sciiti libanesi) il Libano sarebbe ancora molto lontano dall’essere un’oasi di pace. Resterebbe un paese fallito e in costante declino da decenni.
17 ottobre 2019 Comincia una mobilitazione contro il sistema politico, giudicato incapace di risolvere la crisi economica e di garantire i servizi di base.
29 ottobre Il premier Saad Hariri si dimette.
19 dicembre Hassan Diab è nominato primo ministro.
30 aprile 2020 Il governo adotta un piano di riforme per rilanciare l’economia.
29 giugno Il direttore generale del ministero delle finanze, Alain Bifani, coinvolto nei negoziati con il Fondo monetario internazionale (Fmi), si dimette a causa dei disaccordi sulla gestione della crisi economica.
Sistema inceppato
Il terzo grande problema è un modello economico allo stesso tempo selvaggio e inefficiente, che si fonda sul peggio del neoliberismo e su una logica clientelare portata all’estremo. I servizi pubblici sono carenti, ma la spesa pubblica è esorbitante. Il paese non produce quasi niente e punta tutto sul terziario, ma senza alcuna politica seria che accompagni questa scelta. Il Libano avrebbe potuto essere una destinazione turistica irrinunciabile, ma come si possono attirare i visitatori con le spiagge inquinate, un ambiente saccheggiato, l’elettricità non garantita, e senza neanche essere a buon mercato?
Nessun modello economico avrebbe funzionato in un contesto politico simile. Ma era un motivo per mettere l’economia allo stesso basso livello della politica? Siccome la popolazione era legata a un certo stile di vita, il paese aveva bisogno di una moneta forte per importare i suoi beni di consumo. Siccome i politici usavano il denaro pubblico per distribuire rendite ai loro clienti, bisognava trovare un modo per finanziare tutto il processo. La chiave stava nel settore bancario. Il segreto bancario e la facilità nel convertire le lire in altre valute, con tassi di interesse più alti della media, hanno reso il paese particolarmente attraente, soprattutto per i libanesi della diaspora.
I nuovi depositi servivano a pagare gli interessi su quelli precedenti. Ma il sistema, più che traballante, si è inceppato man mano che la spesa pubblica è aumentata, gli aiuti stranieri si sono prosciugati, le riforme strutturali non sono state attuate, e quando si sono aggiunti i fattori congiunturali, in particolare la guerra in Siria. Insomma, è un circolo vizioso. Per attirare nuovi depositi bisogna offrire tassi d’interesse ancora più invitanti, il che porta a uccidere l’economia reale e ad aumentare un debito già colossale. La Banca centrale ha finanziato uno stato vampiro. Le banche hanno finanziato una Banca centrale che ha aiutato lo stato a scavarsi la fossa. Tutti hanno avuto un tornaconto, dal risparmiatore fino ai politici. Finché tutto l’edificio è collassato.
◆ A partire dal 1 luglio il governo di coalizione israeliano guidato da Benjamin Netanyahu può pronunciarsi sulla realizzazione del piano per annettere la valle del Giordano e gli insediamenti in Cisgiordania. Il quotidiano palestinese Al Quds ricorda che Netanyahu ha incontrato la delegazione statunitense arrivata in Israele il 26 giugno per discutere il progetto ideato dall’amministrazione del presidente Donald Trump. Ma nei giorni seguenti “ha cercato di trovare dei modi per districarsi dalla sua promessa”, scrive il quotidiano israeliano Haaretz, e il piano potrebbe essere rinviato. L’alleato di governo Benny Gantz ha detto che la data del 1 luglio non è “sacra” e ha sottolineato che la priorità dovrebbe essere la lotta contro la pandemia di covid-19.
◆ Alla fine di un summit online dell’Unione africana, il 26 giugno i leader di Egitto, Sudan ed Etiopia hanno concordato di raggiungere entro due o tre settimane un accordo conclusivo per risolvere la disputa sulla diga idroelettrica sul Nilo azzurro. Per Al Araby al Jadid è “un piccolo passo verso la soluzione pacifica della crisi”. Il giornale panarabo ricorda che mentre dal punto di vista etiope la diga è un investimento fondamentale per lo sviluppo, Egitto e Sudan temono la mancanza di acqua. In un incontro il 29 giugno il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso sostegno all’azione diplomatica dell’Unione africana.
◆ Il 29 giugno l’Iran ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti del presidente statunitense Donald Trump, accusato di aver ordinato l’omicidio del generale iraniano Qassem Soleimani, avvenuto il 3 gennaio a Baghdad, in Iraq. Teheran ha chiesto la collaborazione dell’Interpol, scrive Tehran Times. Lo stesso giorno le autorità sanitarie hanno annunciato 162 morti causate dal covid-19, il dato quotidiano più alto dallo scoppio dell’epidemia nel paese a febbraio. La sera del 30 giugno almeno 19 persone sono morte in un’esplosione in una clinica a Teheran, forse causata da una fuga di gas.
Le piazze oggi gridano la loro collera, più legittima che mai. Viene dalle viscere, dal ventre affamato e da uno spirito che si sente colpito nella dignità. La rivoluzione è in cammino, ma il processo potrebbe essere molto lungo. Il 17 ottobre 2019, l’inizio della mobilitazione contro il governo, è una data fondante per il nuovo Libano a cui i suoi cittadini aspirano. È il giorno in cui il paese, in tutte le sue componenti, è diventato una nazione. Il giorno in cui il suo popolo ha deciso che il futuro era più importante del passato.
Alla fine di questo cammino rivoluzionario c’è la speranza di ricostruire un paese su basi nuove. Ma bisogna accettare il rischio che il cammino sia lungo e doloroso, e bisognerà mettere sul tavolo tutte le questioni divisive per inventare un nuovo contratto sociale. La classe politica non farà nulla e preferirà colare a picco con la nave piuttosto che accettare nuove regole che la metterebbero automaticamente fuori gioco. La società da parte sua non si può limitare a prendersela con la classe politica senza fare autocritica. I libanesi devono fare una rivoluzione contro una parte di se stessi.
Alcuni manifestanti alimentano la fantasia di un rapido ritorno del “denaro rubato”, che dovrebbe permettere di rimettere a posto le cose. Il rientro di queste somme nelle casse libanesi, se mai avverrà, impiegherà anni, e nulla fa pensare che sarebbe sufficiente a colmare la voragine nei conti pubblici. Una parte della classe politica alimenta invece la fantasia di nuovi aiuti stranieri. Ma nessun paese, a maggior ragione dopo la crisi del covid-19, sembra interessato all’idea di salvare un Libano che rifiuta di salvare se stesso.
Il Fondo monetario internazionale è l’unica strada, anche se non è molto confortante. Presuppone di accettare la realtà del naufragio. La lira non tornerà al suo valore iniziale. I depositi rischiano di subire tagli o prelievi forzati. La spesa pubblica dovrà essere ridotta, e questo potrebbe tradursi in una diminuzione dei salari dei dipendenti pubblici o in un taglio del personale. Nel migliore dei casi prima di rimettersi in sesto il Libano attraverserà anni difficili. E i problemi fondamentali, che si tratti dello status di Hezbollah, dell’impossibilità di governare o dell’assenza di un contratto sociale che non sia il clientelismo, non saranno risolti. Nel peggiore dei casi la crisi risveglierà i riflessi settari e lo spettro della guerra civile. E allora qualche anno non basterà per intravedere la fine del tunnel. ◆ _fdl _
Anthony Samrani _ è il responsabile esteri del quotidiano L’Orient-Le Jour._
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati