È uno degli argomenti più delicati, in cui ogni parola deve essere soppesata – perché ogni parola sarà esaminata attentamente – e che causa, indipendentemente dal contenuto, insoddisfazione, disappunto e perfino accuse da una parte e dall’altra.
È un argomento che apre troppe porte, tocca troppi non detti, tira fili troppo intricati per essere sbrogliati completamente, anche se ognuno ha una sua storia. È uno di quei temi che chiedono di scrutare le profondità dell’odio e di decostruire posizioni assolutistiche che rinchiudono ciascuno nello status di carnefice o vittima, indipendentemente dal suo percorso e dalle sue azioni. Affrontare la questione di una ripresa dell’antisemitismo in un momento di grande confusione e mentre Israele sta conducendo una guerra genocida a Gaza è un esercizio a dir poco pericoloso. Implica cercare di rispondere essenzialmente alla domanda: perché l’odio verso gli ebrei ha conosciuto un aumento eccezionale, senza precedenti da decenni, dopo il 7 ottobre 2023? Perché questa ondata di odio, che è cresciuta man mano che Gaza veniva ridotta in cenere, era percepibile già dal 7 o dall’8 ottobre? Perché è intimamente legata alla questione israelo-palestinese e quasi completamente scollegata da essa?
Il vento in poppa
Lungi dall’essere “residuale”, l’antisemitismo oggi è pervasivo e spregiudicato, in un contesto in cui tutte le parole razziste hanno il vento in poppa e l’ideale democratico è in declino. Le azioni definite antisemite sono raddoppiate, triplicate, perfino quadruplicate in diversi paesi occidentali negli ultimi due anni. Possono assumere la forma di discorsi ignobili, aggressioni, profanazioni o molestie. È come se l’antisemitismo fosse sempre stato lì, in attesa del suo momento, e felice di trovare oggi una realtà che gli permette di non nascondersi più.
Questo antisemitismo dichiarato si manifesta nella sua forma più violenta con attentati compiuti in nome dell’islamismo radicale o dell’estrema destra. In quindici anni gli ebrei sono stati l’obiettivo di una decina di attentati, il che li rende di gran lunga la minoranza più colpita da questo tipo di azioni nel mondo occidentale. Quello del 14 dicembre in Australia, dove un padre e suo figlio hanno sparato su una folla che celebrava Hanukkah sulla spiaggia di Bondi, causando almeno quindici morti, si inserisce pienamente in questa dinamica.
Chiudere un occhio
All’antisemitismo violento e dichiarato se ne aggiunge un altro più sottile, più perverso, meno vivido ma non per questo meno pericoloso. Si trova in tutte le correnti politiche, dall’estrema sinistra all’estrema destra, ormai filosionista e disposta a chiudere un occhio sul “nemico ebreo” in nome della lotta comune contro il pericolo musulmano.
Nessuno di coloro che potrebbero rientrare in questa categoria rivendica di essere antisemita, incita esplicitamente all’odio verso gli ebrei o li prende di mira in quanto tali. Ma tutti diffondono un’idea del mondo, il più delle volte attraverso un discorso complottista, contro le élite e la modernità, che riprende i cliché dell’antisemitismo dell’ottocento e del novecento, sul dominio di una comunità globalista che tira le fila della politica, della finanza e dei mezzi d’informazione. Gli attacchi continui al finanziere filantropo statunitense di origine ungherese George Soros sono uno degli esempi più significativi.
Il trattamento speciale di cui beneficia Israele nei paesi occidentali, in gran parte legato al ricordo schiacciante dell’Olocausto, ma anche le pressioni delle lobby filo-israeliane che non esitano a intervenire negli affari interni dei paesi interessati alimentano questi cliché antisemiti, anche se chi li diffonde non ne avrebbe bisogno per rafforzare le sue convinzioni.
◆ “Il massacro del 14 dicembre è il terribile punto di arrivo di un’epidemia di antisemitismo che si è diffusa in Australia: ci sono stati molti episodi precedenti, da graffiti pieni di insulti a gravi attacchi incendiari, come quello contro la sinagoga Adass Israel a Melbourne”, scrive The Conversation. “I leader ebraici locali avevano detto che si stava facendo poco per proteggere la loro comunità. Eppure il premier Anthony Albanese aveva detto le parole giuste, il governo aveva inasprito le leggi, era stata nominata una commissaria contro l’antisemitismo. In questi anni Canberra ha cercato di bilanciare le spinte e le preoccupazioni di una comunità multiculturale, prestando molta attenzione all’islamofobia e agli elettori musulmani. Secondo alcuni è per questo che non si è data importanza alle paure della comunità ebraica”. La strage avrà conseguenze che dureranno nel tempo, continua The Conversation: “Metterà sotto pressione la società civile e renderà più difficile la vita alla comunità musulmana. Infine influenzerà il dibattito politico, in particolare quello sull’immigrazione: l’attentatore più anziano era arrivato dal Pakistan negli anni novanta e il figlio era finito nei radar dei servizi di sicurezza già nel 2019, eppure non era considerato una minaccia. Ma la piaga dell’antisemitismo non potrà essere affrontata né con una misura né con una serie di misure. Serve uno sforzo coordinato e prolungato del governo e della società civile per provare almeno a contenerla”.
Si arriva così alla questione più complessa: quello che unisce o, al contrario, separa il rapporto con Israele dall’antisemitismo. Se quest’ultimo non ha atteso la nascita dello stato ebraico per manifestarsi, e se Israele è il risultato della volontà di dare un rifugio sicuro a una comunità perseguitata da secoli, sembra evidente che ha contribuito, almeno in Medio Oriente, a dare nuovo slancio all’ostilità verso gli ebrei.
All’antigiudaismo tradizionale del mondo arabo, incomparabile con l’antisemitismo europeo, si è sovrapposto un discorso importato dall’Europa che ha fatto presa man mano che Israele diventava dominante. L’animosità contro il nemico israeliano si è così trasformata anche in odio verso gli ebrei, rafforzato dall’esodo massiccio, volontario o no, delle comunità ebraiche dai paesi arabi verso Israele.
La guerra genocida condotta da Israele a Gaza è l’apice di questo processo che oggi rende la destra israeliana il principale motore dell’antisemitismo nel mondo. La disumanizzazione dei palestinesi, l’assimilazione di ogni critica contro Israele all’antisemitismo, la strumentalizzazione della memoria dell’Olocausto, la confusione permanente nella retorica del premier Benjamin Netanyahu tra ebrei e israeliani e il fatto che le azioni di Israele non provocano sanzioni da parte dei paesi occidentali, alimentando una doppia morale, contribuiscono all’antisemitismo. Israele non lo crea, ma lo rafforza; gli dà corpo e fa tendere una parte di coloro che si dichiarano antisionisti verso posizioni che flirtano e talvolta abbracciano l’antisemitismo.
Considerare Israele l’unico responsabile di questa dinamica sarebbe tuttavia disonesto. L’ossessione anti-israeliana, che si manifesta anche con un doppio standard in chi ha fatto della causa palestinese la sua unica bussola (geo)politica, pone domande a cui non è sempre facile rispondere.
Vittima e carnefice
Se i crimini commessi da Israele turbano così tanto le coscienze rispetto ad altri conflitti, è forse per il silenzio e perfino la connivenza dei governi occidentali con il loro alleato? Per una lettura ideologica delle relazioni internazionali, incentrata sulla lotta all’imperialismo occidentale, che vede Israele una sua estensione nella regione e rende l’uomo bianco responsabile di tutti i grandi mali dell’umanità? Oppure ci sono anche altre ragioni, più profonde e spesso inconsce, che non sono del tutto estranee all’antisemitismo?
Il dibattito sul genocidio è la manifestazione più evidente del fatto che la politica israeliana e l’antisemitismo si rafforzano a vicenda. Ci sono quelli che, fin dall’8 ottobre 2023, accusano Israele di commettere un genocidio, prova definitiva, ai loro occhi, che il popolo vittima è in realtà dalla parte dei carnefici. E ci sono quelli che, più di due anni dopo, mentre molti esperti della questione hanno definito la guerra di Israele a Gaza un genocidio, continuano a rifiutarsi perfino di considerarlo possibile proprio perché, ai loro occhi, il popolo vittima non potrà mai passare dalla parte dei carnefici. In entrambi i casi, la logica è la stessa: ridurre il popolo ebraico a una sola identità immutabile al servizio di un’ideologia che alimenta l’antisemitismo. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati