Ha già provocato forti tensioni tra il nord e il sud del mondo, il cui dialogo è appeso a un filo. Dopo un’estate di catastrofi climatiche, che ha visto il Pakistan devastato dalle inondazioni e l’Africa orientale minacciata dalla carestia per la grave siccità, il tema delle conseguenze irreparabili dell’aumento delle temperature s’impone come il più scottante nei negoziati a Sharm el Sheikh, in Egitto, che si chiuderanno il 18 novembre. L’argomento delle perdite e dei danni (loss and damage) è diventato una specie di “linea rossa” per molti paesi in via di sviluppo che chiedono un sostegno economico, obbligando gli stati ricchi a far evolvere i loro discorsi.

“È un test decisivo per il successo della Cop27”, la 27a conferenza delle parti sui cambiamenti climatici promossa dalle Nazioni Unite, avverte Harjeet Singh, il responsabile strategico della Climate action network, una rete che riunisce più di 1.800 organizzazioni non governative di 130 paesi.

Le perdite e i danni, riconosciuti dall’accordo di Parigi del 2015, si riferiscono sia alle ricadute di eventi estremi, come inondazioni o cicloni, sia agli effetti lenti del riscaldamento globale, come l’innalzamento del livello dei mari. Comprendono le morti, le perdite economiche, le migrazioni forzate o la scomparsa di beni culturali. Queste conseguenze non possono essere evitate né con le azioni mirate a ridurre i gas serra né con le misure di adattamento ai cambiamenti climatici. In Pakistan, dove le morti provocate dalle alluvioni di quest’autunno sono state più di 1.700 e la stima dei danni è di 30 miliardi di dollari, “è troppo tardi per rendere le abitazioni o le coltivazioni più resistenti”, spiega Harjeet Singh. “Dobbiamo aiutare le persone a rifarsi una vita”.

Un peso in più

I danni causati dal riscaldamento globale colpiscono tutto il pianeta, ma gli effetti sono più disastrosi nei paesi in via di sviluppo, che non hanno i mezzi per affrontarli e limitarli. Secondo un recente rapporto dell’ong Oxfam, dal 1991 ogni anno una media di 189 milioni di abitanti dei paesi poveri è colpita da eventi climatici estremi. È un fardello in più per stati che sono già pieni di debiti. Allo stesso tempo questi paesi sono i meno responsabili delle perturbazioni del clima, perché hanno prodotto e tuttora producono meno emissioni.

Al contrario, i paesi industrializzati si sono arricchiti grazie all’energia ricavata da combustibili fossili – carbone, petrolio, gas – che sono la principale causa del riscaldamento globale. “Le perdite e i danni derivano dall’incapacità del nord del mondo di ridurre le emissioni e di fornire gli aiuti finanziari promessi ai paesi del sud per consentirgli di adattarsi”, aggiunge Inès Bakhtaoui, ricercatrice associata del centro studi Stockholm environment institute.

I paesi del sud pretendono giustizia. Riuniti nel gruppo chiamato “G77 e Cina”, che raccoglie 135 stati nei quali vive l’80 per cento della popolazione mondiale, chiedono la creazione di un meccanismo finanziario specifico, dotato di nuovi fondi. La necessità di un meccanismo del genere è urgente, perché perdite e danni continuano ad aggravarsi: alcuni scienziati hanno stimato che saranno tra i 290 miliardi e i 580 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, e fino a 1.700 miliardi di dollari all’anno entro il 2050. E questo calcolando solo le conseguenze sulle economie dei paesi in via di sviluppo.

“Perdite e danni non sono una questione di carità né di solidarietà. Rappresentano un debito del nord nei confronti del sud, che va ripagato. Siamo agli sgoccioli”, avverte Fanny Petitbon, responsabile della campagna sul clima dell’ong Care France.

I paesi ricchi “devono capire che le ricadute sono globali, non locali”, aggiunge Saleemul Huq, ricercatore bangladese e direttore del Centro internazionale per il cambiamento climatico e lo sviluppo di Dhaka. Per esempio, la siccità di quest’estate in India ha portato a una minore produzione di grano, che contribuirà ad aggravare le tensioni alimentari mondiali scaturite dalla guerra in Ucraina.

Tuttavia i paesi ricchi si oppongono al pagamento per le perdite e i danni, soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione europea. Alla Cop26 di Glasgow del 2021 avevano respinto la richiesta di creare un meccanismo specifico e la conferenza si era conclusa con l’annuncio del lancio di un “dialogo” nel 2024. “Finora i paesi ricchi hanno continuato a respingere le richieste di aiuti economici, portate avanti dal 1991 dai piccoli stati insulari, per i quali la crisi del clima è una questione di vita o di morte”, ricorda Guillaume Compain, che dirige la campagna per il clima dell’ong Oxfam. Questi governi temono che riconoscere perdite e danni porti a dispute giudiziarie e ad altre domande di risarcimenti.

Aperti alla proposta

Ma il tenore del dibattito comincia a cambiare, grazie alle pressioni del mondo in via di sviluppo e della società civile. Alla fine di ottobre John Kerry, inviato speciale degli Stati Uniti per il clima, ha detto che Washington è aperta a “possibili accordi economici”, senza però pronunciarsi su un meccanismo specifico. “Tocca ai paesi ricchi farsi avanti, essere onesti e offrire aiuto”, ha dichiarato in una recente intervista a Time, parlando per la prima volta di “obbligo morale”.

L’Unione europea riconosce i bisogni dei paesi poveri, ma respinge l’idea di uno strumento di finanziamento specifico. “Abbiamo bisogno di un mosaico di risposte. Focalizzarsi su un unico meccanismo, che sarà lungo e complesso da definire, non ci permetterà di mettere a disposizione dei fondi in breve tempo”, ha detto Jennifer Morgan, inviata speciale del ministero degli esteri tedesco per la politica internazionale sul clima. L’Europa sostiene il progetto del G7 (il gruppo formato dai sette paesi più ricchi del mondo) di creare uno “scudo mondiale contro i rischi climatici”, attraverso assicurazioni e sistemi di allerta precoce per le catastrofi.

Anche la Francia si dice “aperta” alla proposta. “Ma dobbiamo raggiungere un’intesa su quali sono i sistemi più efficaci”, dicono dalla presidenza. “Abbiamo lavorato molto sulle soluzioni, più che su nuovi strumenti finanziari, perché di fatto i soldi ci sono già, in altri fondi”.

“Su questo punto c’è stato un cambiamento di tono dei paesi ricchi: finalmente si affronta il discorso sul piano politico, e non più solo su quello tecnico”, osserva Petitbon. “Questi stati cercano di proporre delle soluzioni, che però non rispondono a tutti i bisogni”.

In attesa dell’eventuale creazione di un meccanismo finanziario, Petitbon commenta positivamente la decisione, presa a settembre dalla Danimarca, di destinare 13 milioni di dollari alla questione delle perdite e dei danni. È la prima volta che uno stato lo fa. Nel 2020 erano state le regioni della Scozia (nel Regno Unito) e della Vallonia (in Belgio) a prendere una decisione simile.

Discussioni da approfondire

La presidenza egiziana della Cop27 ha promesso d’insistere su questo problema spinoso, e ha chiesto al Cile e alla Germania di sbloccare la situazione. “Non penso che arriveremo a una soluzione, ma almeno ci sarà un confronto più costruttivo per uscire dal dibattito ‘teologico’”, cioè quello su un meccanismo finanziario specifico, dice un diplomatico europeo. Che ammette: “Le discussioni a Glasgow non sono state soddisfacenti” e “dovremo mettere mano ai portafogli”.

Le fonti di finanziamento ci sono, assicurano gli esperti. Il segretario generale dell’Onu António Guterres ha chiesto di tassare i profitti extra realizzati dalle aziende che ricavano energia dai combustibili fossili. Altri esperti sono a favore di una tassa sulle transazioni finanziarie, o sulle emissioni di gas serra nel settore aereo e in quello marittimo, o appoggiano l’annullamento del debito degli stati più vulnerabili.

“La Cop, però, non ha mai incaricato nessuno di prendere in esame quelle strade”, lamenta Fanny Petitbon. Questo nonostante nel 2013 sia stato creato, sotto l’egida dell’Onu, il meccanismo detto “di Varsavia”, con lo scopo di accelerare “l’azione e il sostegno” in materia di finanziamenti per le perdite e i danni. Su questo fronte non sono stati fatti progressi. È stata costruita solo la cosiddetta “rete di Santiago”, nel 2019, per “catalizzare” l’assistenza tecnica fornita da diverse organizzazioni e facilitare l’accesso dei paesi vulnerabili. Le sue modalità di gestione saranno esaminate alla Cop27. ◆ gim

Da sapere
L’ora dei conti

◆ Nel 2009, alla conferenza sul clima di Copenaghen, i paesi ricchi promisero di donare cento miliardi di dollari all’anno ai paesi poveri per interventi di adattamento alla crisi climatica. A oggi, rivela il Guardian, i principali produttori di gas serra (Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia) non hanno versato la loro parte. Il debito maggiore è quello degli Stati Uniti: in rapporto alle loro emissioni, dovrebbero pagare quaranta miliardi di dollari, ma nel 2020 ne hanno versati appena 7,6. Secondo un documento uscito poco prima dell’inizio della conferenza Cop27 a Sharm el Sheikh, in Egitto, solo cinque paesi (Giappone, Italia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) hanno aumentato i loro contributi tra il 2021 e il 2022. In particolare, l’Italia ha creato un fondo per il clima da 840 milioni di euro all’anno, per il periodo 2022-2026. L’8 novembre è stato pubblicato anche il rapporto “Finance for climate action”, commissionato dall’Onu: per aiutare i paesi in via di sviluppo a ridurre le emissioni e ad affrontare gli eventi climatici estremi servirebbero duemila miliardi di dollari entro il 2030, stimano gli autori. Nei primi giorni della conferenza diversi stati europei hanno dichiarato di voler aiutare economicamente i paesi poveri ad affrontare la crisi. L’Austria ha promesso cinquanta milioni di dollari, altri impegni sono venuti da Danimarca, Belgio, Irlanda, Scozia e Germania.

◆ Da ottobre, prima dell’inizio della Cop27, l’Egitto ha fatto arrestare centinaia di persone, in un giro di vite contro il dissenso, ma anche per impedire una manifestazione antigoverno convocata per l’11 novembre. L’8 novembre, dopo le denunce di alcuni partecipanti alla conferenza, Il Cairo ha sbloccato l’accesso a siti di notizie o di ong come Human rights watch. Dal 2017 le autorità hanno oscurato più di seicento siti.


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Questo articolo è uscito sul numero 1486 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati