In Iran il primo giorno d’autunno di ogni anno la canzone Buy-e mah-e mehr (il profumo dell’autunno), annuncia l’inizio della scuola. Al mattino le bambine, con questa canzone nelle orecchie, indossano il grembiule e il velo. Quando tornano a casa lo tolgono, infastidite. A scuola imparano a leggere e scrivere su libri in cui non c’è nemmeno un’immagine di una donna senza velo. Quando compiono sette anni, i capelli diventano ufficialmente un tabù politico e sociale, e devono essere coperti.

Dopo tre generazioni che hanno fatto i conti con l’obbligo di indossare l’hijab, in queste settimane sta succedendo qualcosa d’importante: le generazioni dei “figli della rivoluzione”, cresciute con l’ideologia dell’islam politico, manifestano nelle strade di molte città, le ragazze danno fuoco agli hijab, si tagliano i capelli e i coetanei le incoraggiano. Il fastidio quotidiano delle bambine e delle ragazze si è trasformato in frustrazione collettiva.

I mezzi d’informazione iraniani, sia filogovernativi sia di opposizione, per una volta sono d’accordo nell’individuare nell’obbligo del velo la causa principale delle rivolte. La posizione del governo è chiara: una donna senza hijab è sinonimo d’indecenza e corruzione. Secondo i canali dell’opposizione, invece, il velo è un tema sociale, slegato dal contesto politico.

In ogni caso è stato proprio l’hijab a innescare quest’ultima mobilitazione, diventandone il simbolo. Le proteste, cominciate dopo che Mahsa Amini è morta mentre era sotto la custodia della polizia morale, presto hanno toccato altri ambiti. Il velo infatti rispecchia anche il contesto sociale, politico, morale. Con la rivoluzione iraniana del 1979, il velo è diventato il segno distintivo delle donne, come se dovessero indossare la loro adesione all’ideologia di governo. Anche gli uomini possono dimostrare la loro appartenenza politica attraverso l’aspetto (per esempio non mettendo la cravatta o facendosi crescere baffi e barba), ma le donne subiscono una pressione molto più forte. Il modo di indossare il velo, la sua dimensione e il suo colore diventano segnali politici e ideologici di chi lo porta.

Nessuna comodità

Nessuno dei governi post-rivoluzionari ha mai allentato il controllo sull’obbligo del velo. Da quarant’anni la verità è stata sempre e solo dalla parte del regime che la inculca alle donne disobbedienti con ogni mezzo. Nella vita sociale, a scuola o in famiglia, le donne sono sempre responsabili di cosa indossano e devono dimostrare che i loro vestiti sono adeguati.

Da anni l’hijab rappresenta il parametro morale con cui misurare la vita delle donne. Questo ha creato la convinzione che una donna velata come si deve sia automaticamente una sostenitrice del governo, mentre se ha qualche ciocca di capelli in vista o il velo meno aderente è immorale.

Così i vestiti delle iraniane non hanno più niente a che fare con il gusto personale e neanche con la necessità di proteggersi dagli agenti atmosferici. Al contrario, sono indicatori della moralità femminile, su cui esprimere giudizi. Giudizi che alla fine si radicano inconsciamente anche nelle stesse donne. Un’iraniana si veste sempre per rispettare certi criteri: non capisce il senso d’indossare qualcosa solo per stare comoda. Perfino le iraniane che considerano il velo “una conchiglia che racchiude le perle di una donna” condividono con le altre la pressione psicologica di doversi vestire in modo da non essere giudicate negativamente dalla società. Le strategie quotidiane per resistere all’oppressione hanno assunto forme diverse: costanti e piccoli cambi nell’abbigliamento, l’abitudine a una vita di bugie e doppiezze, o l’emigrazione.

Oggi nessuno indossa l’hijab rispettando i limiti su colore, forma e lunghezza

Parallelamente alla crescita dell’istruzione e della consapevolezza, le iraniane hanno cominciato a modificare la forma e la dimensione del velo per renderlo più tollerabile, pur rispettando le regole ufficiali. Praticamente ogni iraniana segue una strategia quotidiana per diversificare l’abbigliamento. Oggi in Iran nessuno indossa il velo rispettando i limiti su colore, forma e lunghezza annunciati dalle prime linee guida del governo, dopo la rivoluzione. Negli anni le donne iraniane hanno creato uno spazio di dialogo e di negoziazione politica quotidiana con lo stato e la società, ottenendo diversi risultati.

Hanno cambiato il colore dell’hijab o messo vestiti un po’ più corti; l’hanno tolto oppure hanno sostituito il chador (il velo su tutto il corpo) con un modello che copre meno; hanno indossato il velo ma insieme a un trucco ben curato, a un paio di stivali o a un foulard colorato; hanno cambiato il materiale e il modo di indossarlo, aggiungendo ornamenti o decorazioni, come bottoni o polsini.

Ogni volta hanno studiato la reazione delle persone e il grado di soddisfazione del governo e della società, dalla famiglia ai vicini, dai colleghi alla polizia morale. Tutti questi piccoli cambiamenti hanno rappresentato un banco di prova e un campo d’azione per le iraniane, nel tentativo di fronteggiare un governo che vuole creare uniformità.

A doppio filo

Oltre a questi sottili e graduali cambiamenti, diverse generazioni di iraniane hanno sviluppato una sorta di doppia personalità per garantire la propria sicurezza, per esempio indossando il velo nelle sue forme ufficiali solo in certe situazioni. Prima di entrare in qualsiasi spazio pubblico, le iraniane calcolano il grado di tolleranza di quel contesto rispetto al velo. Così possono scegliere in anticipo un modello adatto. Per questo hanno riempito i loro armadi di hijab e chador, di sciarpe e foulard differenti.

Un’altra strategia è stata quella dell’espatrio. Se si chiede alle donne perché lasciano l’Iran, emerge che la libertà di vestirsi come si vuole e di sfuggire al giudizio morale basato sul velo è una delle ragioni principali. Tuttavia, l’ossessione per il velo causa effetti psicologici negativi che non spariscono facilmente nemmeno quando si cambia paese.

Nei mesi scorsi, con l’aumentare delle tensioni sociali e delle critiche alla polizia morale, soprattutto dopo la diffusione di immagini di aggressioni e violenze contro le donne, il dibattito sulla “verità” e sulla “retta via” del regime per le donne è diventato un dibattito giuridico, riaccendendo la discussione sulla fonte del diritto in una repubblica islamica. A quarant’anni dalla rivoluzione, il confronto sulle leggi riguardanti il velo è diventato un punto centrale del discorso giuridico, legandosi a doppio filo alla questione della natura del governo e della necessità di un suo cambiamento radicale. Questa svolta dalla morale al diritto è stata decisiva e mette in evidenza le profonde divisioni che attraversano la società iraniana, ma anche la confusione e le zone grigie del sistema.

Le donne e le ragazze che in questi giorni hanno invaso le strade dell’Iran cercano di smascherare le bugie e le ipocrisie che lo stato e la società gli hanno imposto. E le bruciano nei fuochi che infiammano le strade del paese. Soprattutto la nuova generazione di iraniane non è più disposta a negoziare i modi in cui vestirsi; vuole smettere di avere una doppia vita e diverse facce. Quello che più di ogni cosa causa la rabbia delle iraniane, ma anche di molti ragazzi, è la frustrazione che emerge da un sistema in cui tutti sono abituati a mentire.

Le iraniane, con l’aiuto di internet e di altri strumenti di comunicazione, ma anche delle loro esperienze, hanno maturato una nuova comprensione della condizione in cui si trovano e ora stanno sconvolgendo le regole di vita che altri avevano deciso per loro. Tagliandosi i capelli mettono dolorosamente in discussione la logica di quelle regole.

In questi giorni su Twitter le ragazze e i ragazzi iraniani mostrano il loro profondo dolore e l’abisso di difficoltà sociopolitiche e psicologiche nel quale si sentono sprofondati, per spiegare perché questa mobilitazione e la morte di Mahsa Amini sono così importanti per loro.

Voglio concludere condividendo un ricordo amaro, ma rappresentativo: in un paese straniero una donna iraniana di mezza età sente suonare alla porta, è un vicino e lei gli apre senza pensarci su. Poi, quando richiude la porta, scoppia a piangere: ha provato per la prima volta l’emozione di sentirsi a suo agio in una situazione sociale, senza pensare a che cosa avesse addosso. ◆ av, mv

Azar Tashakor è una sociologa urbana iraniana, esperta di questioni di genere.

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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati