Il Regno Unito ha vissuto anni turbolenti. La cattiva notizia è che neanche il futuro sembra particolarmente roseo. Le previsioni economiche sono fosche, il sistema sanitario è sovraccarico, in autunno l’inflazione potrebbe superare il 10 per cento e nessuno sa esattamente cosa significhi davvero la Brexit. Per i tedeschi e gli altri europei, la domanda è se il Regno Unito sia un partner adatto nel medio periodo. Scosso da crisi interne e da un eterno dibattito sull’Europa, sta diventando imprevedibile per il resto del mondo?

Boris Johnson è personalmente responsabile del fatto che la fiducia nei confronti del governo britannico sia prossima allo zero in molte capitali europee. Ma non è solo un problema d’immagine. La reputazione del paese come pragmatica potenza di medie dimensioni era già stata distrutta al momento del suo insediamento. Molto probabilmente a Parigi e a Berlino si sono sentiti dei sospiri di sollievo quando Johnson ha annunciato le dimissioni.

I limiti dell’impegno britannico stanno diventando chiari anche in Ucraina

Ma il suo partito continuerà a discutere su come il paese debba rapportarsi al resto dell’Europa, perché a sei anni dal referendum sull’uscita dall’Unione europea il disaccordo sulla questione è ancora molto forte. Lo scontro fra gli ideologi che rifiutano tutto ciò che è europeo e i moderati che considerano un imperativo economico avvicinarsi al continente non finirà con l’uscita di scena di Johnson. Anzi, la Brexit continua a minacciare la stabilità interna del paese.

È inoltre probabile che nel 2023 la Scozia voterà nuovamente sulla secessione dal resto del Regno Unito. Il rischio che i nazionalisti vincano e che gli scozzesi scelgano l’indipendenza è significativamente maggiore rispetto al primo referendum del 2014.

Resta anche da capire cosa significhi la Brexit per l’Irlanda del Nord. Sia Londra sia Bruxelles vogliono evitare a tutti i costi un “confine duro” con l’Irlanda. Finora, però, nessuno ha trovato una soluzione, in parte perché le assicurazioni e i trattati sono stati ripetutamente disattesi dal governo britannico.

Ambizioni insostenibili

Eppure in Europa nessuno può sostituire il Regno Unito. Nelle repubbliche baltiche, in Polonia, nella Repubblica Ceca e in altri paesi dell’Europa centrale e orientale, Londra è considerata un partner affidabile, al contrario della Germania. Le visite di Johnson a Kiev e i suoi gesti di sostegno al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj sono stati accolti con entusiasmo in Ucraina. I colleghi di Johnson – Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Mario Draghi – che sono andati a Kiev a giugno, sono arrivati semplicemente troppo tardi.

L’esercito britannico addestra i soldati ucraini da anni, e tra i partiti il sostegno per Kiev è trasversale. Londra ha subito preso una posizione inequivocabile contro il presidente russo Vladimir Putin.

Tuttavia, i limiti dell’impegno britannico stanno diventando chiari anche in Ucraina. Nel 2021, in un documento strategico sulla sua nuova politica estera e di sicurezza, il governo britannico ha annunciato una svolta verso il Pacifico: più soldi, più navi, più armi per una regione che Washing­ton e Londra considerano al centro del prossimo scontro con la Cina.

Poco dopo il governo Johnson ha inviato nella regione indo-pacifica la nuova portaerei Queen Elizabeth, con il suo complemento di caccia F-35, cacciatorpediniere, fregate e un sottomarino nucleare. Si trattava di una dimostrazione di forza: il ritorno della Global Britain, come la definivano i sostenitori della Brexit che sognano la gloria imperiale.

Ma ora questa svolta è diventata un rischio. La guerra in Ucraina comporta una grande responsabilità per il Regno Unito, che è una delle due potenze nucleari europee. Le sue navi, i suoi soldati e le sue armi servono nel vecchio continente. Londra ha già annunciato piani per aumentare la presenza militare nella regione baltica. Ad aprile il ministro della difesa Ben Wallace ha inviato carri armati, pezzi di artiglieria e ottomila soldati per partecipare alle manovre nella regione. Inoltre, Londra ha fornito armi, voli di ricognizione e intelligence.

Il rischio è che il Regno Unito disperda le sue forze tra il mare del Nord, l’Atlantico e il Pacifico. Il disastro della guerra in Iraq del 2003, quando il governo di Tony Blair mandò più di 46mila soldati in Medio Oriente, aleggia ancora come un trauma nella memoria collettiva. Oggi i britannici sono stanchi delle guerre e degli interventi militari quanto gli statunitensi.

L’Unione europea e il Regno Unito dovranno tornare a collaborare più strettamente dopo anni di freddezza reciproca. Se Londra vorrà essere presa sul serio e non fare passi più lunghi della gamba, dovrà costruire più ponti di quanti ne distrugga.

Lo slogan Global Britain non è stato certo reso più credibile dal fatto che il governo britannico abbia tagliato gli aiuti allo sviluppo, si sia ritirato dal programma Erasmus e abbia cercato di deportare illegalmente dei migranti in Ruanda. Dopo la fine dell’era Johnson, un compito gigantesco attende i diplomatici britannici.◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati