Sul masso piatto che affiora nel mezzo della foresta è scolpito un canguro adulto seguito da uno più piccolo. Hanno lo sguardo rivolto verso una collina lontana dove si trova un’altra roccia scolpita, che indica a sua volta la direzione della roccia successiva. Gli uomini che hanno realizzato queste incisioni sono morti da più di mille anni, o magari da diecimila. O anche di più. Comunque da molto tempo prima che un europeo bianco mettesse piede in Australia. Scarpe da trekking e camicia blu con le maniche arrotolate, Dennis Barber discende da quegli uomini, i wiradjuri di Mudgee, nello stato australiano del New South Wales. “Questa roccia rappresenta un canguro adulto che mostra la strada al più giovane. Era l’inizio di un percorso al tempo stesso materiale e spirituale che conduceva all’età adulta”. Dennis Barber ha seguito quel percorso. “Avevo poco più di trent’anni, per i bianchi ero già un adulto, ma penso di esserlo diventato davvero solo in quel momento”.
Barber oggi ha 56 anni. È il capo della Koori country firesticks aboriginal corporation, un’associazione che, come si legge sul sito web, ha l’obiettivo di “far rivivere le pratiche culturali autoctone tradizionali del fuoco come metodo alternativo alle tecniche di riduzione dei rischi usate dai proprietari e dagli amministratori di terreni privati e pubblici”. Ci troviamo in questo parco riconosciuto da qualche anno come territorio aborigeno, a poco più di un’ora da Sydney, la capitale dello stato del New South Wales, ai piedi delle Blue mountains. Essendo una guardia forestale di un parco nazionale, Dennis Barber ha ricevuto una formazione nella prevenzione degli incendi. Tuttavia nel 2010 ha scoperto i cultural fires, fuochi tradizionali, un’usanza che discende direttamente dalla cultura aborigena. Una tecnica ancestrale che consiste nel creare dei fuochi circoscritti per evitare incendi come quelli che si sono verificati quest’estate in Australia. La foresta in cui ci troviamo serve anche da area di addestramento.
Il fuoco viene diffuso a 360 gradi a partire da un unico punto, le fiamme sono mantenute basse e fatte avanzare lentamente, così gli insetti, i ragni, le lucertole, le rane e altri piccoli animali “hanno il tempo di scappare, e la volta degli alberi viene preservata”, spiega Barber. Si tratta del cosiddetto cool burning, o fuoco freddo: il calore viene mantenuto a un livello molto inferiore rispetto a quello raggiunto da un incendio nella boscaglia o da un incendio appiccato a scopo preventivo. Barber afferma: “Gli incendi preventivi sono molto più ampi dei fuochi tradizionali. Spesso vengono lanciate dagli elicotteri delle specie di palline da ping pong infiammate che formano la linea del fuoco. In questo modo la fauna non ha vie di fuga”. L’altro vantaggio dei fuochi tradizionali è che sono molto più semplici da organizzare, richiedono meno persone e possono essere realizzati a prescindere dalle condizioni meteorologiche.
Lo ammette anche Bill Elder, comandante dei vigili del fuoco di Braidwood, a sud di Sydney: questi fuochi tradizionali sono “interessanti”. Elder ha partecipato a diverse conferenze sull’argomento. All’inizio però questa tecnica non lo convinceva. Quando Dennis Barber è tornato nelle Blue mountains, nel 2010, ha dovuto condurre “una lunga battaglia per convincere le autorità. Gli ecologisti erano divisi”, racconta. La Koori country firesticks aboriginal corporation oggi accoglie aborigeni e non, anche se per realizzare dei fuochi tradizionali è necessaria la presenza di una maggioranza di aborigeni. La stagione da poco conclusa ha lasciato una “grande tristezza” in Barber, “a causa della terribile devastazione”. Naturalmente pensa “a tutto quello che è stato perso, gli alberi, gli animali, miliardi di esemplari”, ma allo stesso tempo osserva che “la natura australiana sta già cominciando a riprendersi, anche se ci vorranno anni”. In alcune località, inoltre, gli incendi hanno bloccato la diffusione di specie invasive. Cosa ancora più importante, hanno “messo in evidenza la necessità di cambiare completamente approccio. I fuochi tradizionali ora vengono presi sul serio”.
In altre zone dell’Australia queste tecniche sono già prese sul serio, ma con delle limitazioni. Dalla metà degli anni novanta nel Territorio del Nord le tecniche indigene sulla gestione degli incendi sono ampiamente usate e sostenute dal governo. Tuttavia, come sottolinea una ricerca pubblicata nel 2015, “l’uso congiunto o integrato dei ‘saperi ecologici tradizionali’ e della scienza occidentale, raccomandato dai programmi che fanno ricorso ai fuochi antropici per la conservazione, ha di fatto determinato un trasferimento della responsabilità sociale e rituale di bruciare il terreno da specifici guardiani indigeni alle guardie forestali indigene, a ecologisti del fuoco e ad altri attori non indigeni”. Secondo gli autori della ricerca, “la partecipazione locale è ostacolata dal ruolo degli esperti esterni” e “i tentativi di combinare i saperi indigeni e quelli non indigeni sugli incendi danno spesso la priorità ai punti di vista occidentali sostenuti dagli enti finanziatori”.
Queste osservazioni dei ricercatori riassumono bene la politica australiana rispetto agli aborigeni in generale. Un riconoscimento minimo, annunciato ma quasi mai messo realmente in pratica. Su diversi siti ufficiali si trovano frasi come “noi rispettiamo e onoriamo gli antenati passati, presenti e futuri degli aborigeni e degli isolani dello stretto di Torres”. Testi simili vengono anche letti all’inizio degli incontri pubblici. È capitato per esempio all’inizio del laboratorio di Extinction rebellion Blue mountains, un incontro a cui non era presente nemmeno un aborigeno.
Colmare il divario
Arrivati in Australia almeno 50mila anni fa e da allora sempre presenti sul territorio, i popoli indigeni non sono riconosciuti dalla costituzione. Fino agli anni settanta i coloni britannici attuarono un serie di politiche razziste fatte di assimilazione forzata, negazione dell’identità aborigena e perfino rapimenti di minori. Ufficialmente abolita negli anni settanta, la politica della separazione dei bambini indigeni dai genitori è di fatto proseguita in modo più subdolo. Un’inchiesta sul territorio del New South Wales pubblicata a novembre del 2019 ha dimostrato che gli assistenti sociali che si occupano di protezione dell’infanzia forniscono regolarmente “prove ingannevoli” al tribunale dei minori, scelgono spesso la soluzione più traumatica sottraendo i bambini alle famiglie e intervengono senza consultare la comunità indigena.
Dennis Barber, dal canto suo, chiede che gli aborigeni abbiano un posto nelle commissioni d’inchiesta che si occuperanno degli incendi, un obiettivo difficile da raggiungere. “Per esempio, l’altro giorno in tv è andato in onda un dibattito sugli incendi”, spiega. “In studio c’erano quattro esperti, nessuno dei quali aborigeno, e gli aborigeni non sono stati neppure nominati in tutta la trasmissione. Magari le cose cambieranno”, sospira, “ma il processo è molto lento”.
“Ci abbiamo messo duecento anni per riconoscere gli aborigeni come i primi abitanti di questo paese”, afferma David Shoebridge, deputato verde del parlamento del New South Wales, “e ancora oggi non c’è alcun trattato”. Gli aborigeni sono il 3 per cento dalla popolazione australiana, ma questo è lo stato in cui sono più numerosi. “Non ci sono leggi apertamente razziste ma abbiamo dei comportamenti razzisti”, continua Shoebridge. Tuttavia, una percentuale crescente della popolazione è disposta a “ripercorrere la storia del paese e a riconoscere l’invasione e il genocidio che ne è seguito”. La celebrazione ogni anno del National day, la festa del 26 gennaio che commemora l’arrivo nel 1788 della prima flotta britannica in Australia, è sempre più contestata. “Per i popoli aborigeni quel giorno non segna la nascita di un paese ma l’inizio di un genocidio”, aggiunge Shoebridge. “Loro lo chiamano per quello che è stato nella realtà, Invasion day, il giorno dell’invasione”.
Dennis Barber preferisce parlare di economia, di questioni sociali e di sviluppo, argomenti a suo parere “molto più importanti della bandiera o del National day. Oggi”, prosegue, “tra i giovani aborigeni ci sono tanti problemi di droga, dipendenze varie e violenza”.
◆ Uno degli indicatori che meglio esemplificano l’emarginazione degli aborigeni è la loro presenza sproporzionata nelle carceri australiane. La questione è tornata di recente al centro del dibattito e durante le manifestazioni di Black lives matter nelle città australiane è stata portata in piazza insieme al problema del razzismo e della violenza della polizia e delle morti in custodia, che tra gli indigeni sono particolarmente numerose. The Guardian
Nel 2008 il primo ministro Kevin Rudd aveva porto delle scuse ufficiali per le politiche di sottrazione dei bambini. Da allora è stato avviato un programma chiamato Closing the gap, colmare il divario. Dopo anni, però, i progressi sono davvero pochi.
Lo stato si era impegnato a ottenere dei risultati in alcuni settori: salute (aspettativa di vita, mortalità infantile), istruzione (frequenza scolastica, lettura e calcolo, conseguimento del diploma di scuola superiore) e lavoro. Il dodicesimo rapporto su Closing the gap pubblicato all’inizio di febbraio evidenzia come solo per due dei sette criteri gli obiettivi potrebbero essere raggiunti: il 95 per cento degli aborigeni più giovani potrebbe essere scolarizzato di qui al 2025 e la scolarizzazione fino al diploma di scuola superiore è in aumento. Tuttavia il tasso di mortalità infantile tra gli aborigeni continua a essere molto superiore rispetto a quello del resto della popolazione. Nel 2018 il tasso di occupazione degli indigeni era del 49 per cento circa contro il 75 per cento degli altri australiani e l’aspettativa di vita alla nascita è di 71,6 anni per gli uomini indigeni (8,6 anni in meno rispetto agli altri australiani) e di 75,6 anni per le donne (7,8 anni in meno rispetto alle non indigene).
In merito a questi dati, il primo ministro Scott Morrison ha dichiarato: “Abbiamo perpetuato un modo di pensare radicato e tramandato da più di due secoli, basato sul presupposto che noi ne sapevamo più dei popoli indigeni. Non è così. Pensavamo di capire meglio di loro i loro problemi. Non è così. Loro li vivono. Noi dobbiamo guardare il divario che vogliamo colmare non dal nostro punto di vista, ma dal punto di vista degli indigeni australiani”.
Peccato che fino a non molto tempo fa i conservatori non abbiano certo brillato per apertura.
Referendum tardivo
Nel 2017 si è tenuto il vertice di Uluru, vicino al massiccio roccioso sacro per gli aborigeni. Delegati provenienti da tutte le tribù indigene si sono riuniti per firmare la Dichiarazione dal cuore. Il testo riprende le principali rivendicazioni indigene e in particolare chiede una riforma della costituzione “che dia ai popoli aborigeni i mezzi per agire e occupare il posto a cui hanno diritto nel loro paese”. Il testo è stato scritto al centro di un grande foglio e firmato, tutto intorno, da un centinaio di delegati. Sei mesi dopo, il primo ministro di allora, Malcolm Turnbull, ha rigettato il testo, ritenendo che “un cambiamento così radicale delle istituzioni rappresentative della costituzione non potrebbe essere sostenuto da una maggioranza di australiani in gran parte degli stati del paese”.
Ma nel 2020, dopo gli incendi che hanno indebolito il primo ministro Scott Morrison, le cose potrebbero cambiare. Tre senatori conservatori, James McGrath, Dean Smith e Amanda Stocker, chiedono un referendum per il riconoscimento degli aborigeni nella costituzione. Di questo passo, però, l’Australia rischia di diventare inabitabile a causa della crisi climatica prima ancora che ci sia questo riconoscimento. ◆ gim
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1365 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati