Chissà se tra qualche anno, ripensando a questa stagione della musica prodotta in Italia, la prima immagine che verrà in mente non sarà quella di una lunga ipnosi meridiana. Chissà se, potendo scegliere cosa prendere dei suoni dei musicisti che si dedicano a certe latitudini e che hanno referenti paesaggistici e ambientali quanto interiori, dalla Sardegna alla Calabria alla Puglia interrotte da mezzelune lontane e riflessi solari che sono come scudisciate, non verrà in mente una specie di Consorzio mediterraneo indipendente.

Ci penso mentre ascolto Jalitah, disco che nasce da una serie di concerti di Paolo Angeli e Jacopo Incani, alias Iosonouncane, nel 2018 e uscito per Tanca Records.

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Le coordinate del disco sono la chitarra preparata di Angeli, i bordoni arcaici di Incani e un approccio alla “radice” che la strappa dalla terra e la rovescia in aria. Ascoltando Jalitah vengono in mente le radici volanti delle mangrovie, che stabiliscono con l’acqua un rapporto anelante e in qualche modo contrario. C’è la semi-iconica Summer on a spiaggia affollata, con un finale pizzicato che riproduce il meccanismo di perdita alla fine delle filastrocche, quando è impossibile tenersi in bocca troppe parole veloci, e qualcuna la si perde.

Ma ciò che smarrisce si ritrova nell’inizio della successiva Andira, e riverbera in tutto il disco come una pulsazione sotterranea: è un gioco da bambini esaurire un concetto a furia di ripeterlo, ma è un gioco da bambini anche inventarsi la storia del proprio sangue, come succede in questo disco che è tutto flusso e nessuna separazione. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati