Adicembre del 2020 il porto calabrese di Gioia Tauro era in piena attività. Oltre alla merce legale erano arrivati anche trecento chili di cocaina in un container da Santos, in Brasile. La ’ndrangheta, una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo, aveva versato 261mila euro a un funzionario doganale affinché manipolasse le scansioni a raggi x del container, così da superare le ispezioni. Secondo le autorità italiane, il funzionario non aveva agito da solo: scaricatori complici avevano spostato la cocaina in un secondo container per poi caricarlo su un camion di proprietà di un’azienda di trasporti connivente; e i supervisori locali avevano garantito che il piano non avesse intoppi. Tutte queste persone coinvolte non potevano immaginare che due anni dopo la guardia di finanza si sarebbe presentata a Gioia Tauro, contando su informazioni raccolte da agenti infiltrati nel porto e su intercettazioni di telefonate criptate.

Il 6 ottobre scorso le autorità italiane hanno arrestato 36 persone tra scaricatori, funzionari doganali, autotrasportatori e supervisori. Sono sospettati di fare parte di una rete di contrabbandieri guidata dalla ’ndrangheta, che all’epoca importava in Italia trenta tonnellate di cocaina all’anno. Il porto di Gioia Tauro, uno dei più grandi d’Europa, era tra i principali punti d’ingresso della cocaina nel continente.

Nel corso dei decenni i clan sono diventati i primi alleati europei dei più importanti trafficanti di cocaina dell’America Latina. Dal Messico all’Ecuador, dalla Colombia al Brasile, affiliati alla ’ndrangheta sono stati arrestati per reati legati al narcotraffico in quasi in tutti i paesi delle Americhe. L’Uruguay nel 2017 ha catturato uno dei boss, Rocco Morabito, che poi è fuggito dal tetto della prigione in cui era detenuto. È stato arrestato di nuovo in Brasile nel 2021.

L’ascesa dei clan calabresi è stata in parte favorita dal caso. E anche il futuro dell’organizzazione potrebbe dipendere da circostanze indipendenti dal controllo delle famiglie.

I rapporti con il Sudamerica

La ’ndrangheta è nata in Calabria, presumibilmente nell’ottocento. Mentre si radicava nella sua regione, cominciava a crescere anche all’estero, con l’emigrazione. Negli anni sessanta i clan calabresi cominciarono ad accumulare enormi quantità di denaro attraverso attività legali e illegali tra cui l’estorsione, i rapimenti e l’infiltrazione nelle istituzioni e nelle aziende. Dagli anni settanta in poi investirono in attività illegali più redditizie, come il contrabbando di sigarette, collaborando con le famiglie mafiose negli Stati Uniti.

Negli anni ottanta l’organizzazione criminale investì nel traffico di cocaina, dalla Colombia verso gli Stati Uniti. Le cosche avevano una presenza permanente negli Stati Uniti, in Canada e in Australia, ma non in America Latina. Ancora oggi in Argentina, dove c’è una forte presenza di immigrati calabresi, l’attività della ’ndrangheta è spesso limitata ai singoli individui che fanno accordi per il trasporto della droga per conto di altri criminali.

Secondo Anna Sergi, docente di criminologia dell’università dell’Essex e specializzata nel crimine organizzato in Italia, Roberto Pannunzi è stato un pioniere di questo meccanismo. Pannunzi, nato a Roma, si affermò come intermediario indipendente in Colombia alla fine degli anni ottanta, facendo da ponte tra il cartello di Medellín di Pablo Escobar e i clan di cosa nostra e della ’ndrangheta in Italia. Era un influente mediatore del traffico di cocaina: organizzava spedizioni di varie tonnellate verso l’Europa. Arrestato due volte, e fuggito due volte, fu ripreso in Colombia il 5 luglio 2013 ed estradato lo stesso anno in Italia.

All’inizio la ’ndrangheta si affidava a questo tipo di contatti, ma in seguito scelse di contrattare direttamente con i grandi trafficanti. Alla fine degli anni novanta i clan avevano le loro reti stabili di rappresentanti in Colombia. Negli anni ottanta e novanta, proprio mentre il governo degli Stati Uniti intensificava la sua “guerra alla droga”, la domanda di cocaina era aumentata vertiginosamente in Europa, e la ’ndrangheta si era creata una posizione ideale per sfruttare questo mercato. I contatti con i trafficanti latinoamericani erano stati utili, ma il vantaggio più grande fu il controllo del porto di Gioia Tauro.

Quando nel 1995 il porto fu operativo, la ’ndrangheta cominciò a infiltrarsi nelle attività portuali. Sembra che il clan Piromalli incassasse un euro e mezzo per ognuno dei 570mila container scaricati nel porto ogni anno. Il controllo della ’ndrangheta rese Gioia Tauro uno snodo ideale per il traffico di cocaina. “È diventata una scelta scontata anche per gli altri trafficanti”, spiega Sergi. “La ’ndrangheta era una garanzia per il traffico di cocaina in Europa perché il porto di Gioia Tauro era una via d’accesso sicura”.

Nel 2008 una commissione parlamentare antimafia dichiarò che l’organizzazione criminale calabrese gestiva fino all’80 per cento del traffico di cocaina verso l’Europa. Nel 2012, un rapporto della Commissione europea arrivava a conclusioni simili, sottolineando che l’internazionalizzazione della ’ndrangheta negli anni novanta aveva coinciso con la costruzione del porto di Gioia Tauro, e che “probabilmente i clan avevano guadagnato cifre enormi con le operazioni portuali”.

Gli arresti del 6 ottobre dimostrano che la ’ndrangheta continua a usare Gioia Tauro per importare la cocaina in Europa. Ma il momento d’oro del porto potrebbe finire proprio per la pressione delle forze dell’ordine e anche per il cambiamento delle dinamiche del commercio, legale e illegale. Negli ultimi vent’anni le forze dell’ordine e le autorità doganali italiane hanno intensificato le indagini sulle attività nel porto, prendendo di mira i clan che ci operano. Bruno Megale, questore di Reggio Calabria, durante un’inchiesta parlamentare del dicembre 2021 ha dichiarato che quell’anno le autorità italiane avevano sequestrato tredici tonnellate di cocaina nel porto: il 97 per cento della cocaina intercettata ai confini del territorio italiano e circa il 20 per cento di tutta la cocaina transitata in Italia.

Negli ultimi anni quello di Gioia Tauro è stato uno snodo commerciale meno importante rispetto ad altri porti europei. Per le loro rotte i trafficanti spesso seguono i flussi delle merci legali. La riduzione dei carichi legali a Gioia Tauro limita le occasioni per far entrare quelli illegali. Quindi i narcotrafficanti hanno rivolto la loro attenzione verso i grandi porti europei, come Anversa e Rotterdam. Nel 2021 le autorità belghe e olandesi hanno sequestrato rispettivamente 89 e 70 tonnellate di cocaina, molto di più delle tredici tonnellate di Gioia Tauro.

Nuove alleanze

La ’ndrangheta, inoltre, subisce la concorrenza di altre reti europee del narcotraffico. In Colombia, primo paese produttore di cocaina, le grandi organizzazioni criminali si sono divise in piccole fazioni, e questo ha aperto uno spiraglio per altri gruppi europei che vogliono acquistare direttamente in Sudamerica, come le mafie albanesi. La ’ndrangheta, però, sembra poter sopravvivere al declino di Gioia Tauro come punto d’accesso per la cocaina in Europa.

Il controllo di altri porti italiani ha aiutato i clan. Secondo il sito d’informazione Reggio Today, ad agosto del 2022 le autorità brasiliane hanno sequestrato più di cinque quintali di cocaina destinata al porto di Vado Ligure, usato dalla ’ndrangheta come alternativa a Gioia Tauro.

Secondo un rapporto della commissione parlamentare antimafia, nel 2017 il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva dichiarato che il porto di Genova, che fa parte dello stesso snodo portuale di Vado Ligure, era “tra i più infiltrati dalla ’ndrangheta”.

Oggi i clan si alleano spesso con altri gruppi, usando diversi porti europei e dividendo costi e rischi delle spedizioni. “La ’ndrangheta condivide le infrastrutture perché le rotte sono cambiate. Per operare in porti come Rotterdam o Anversa hanno bisogno di alleanze”, spiega Sergi. “Il traffico di droga non è più un monopolio, ma una torta da spartire”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1490 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati