Molto sorprendente e stimolante anche se imperfetto il libro della francese Lea Murawiec. È la quintessenza della cosiddetta tabularità del fumetto, che diviene qui architettura. Le singole vignette e le tavole sono una cosa sola e spesso si lavora con genialità sulla doppia pagina, in questo racconto distopico ambientato in una megalopoli dove i grattacieli schiacciano l’individuo. Parabola surreale sull’omologazione e l’alienazione individuale, la protagonista corre e salta da tutte le parti. Ma la megalopoli è un mondo di segni, semiologico. Un grande pieno che forse è un grande vuoto: cartelli e cartelloni, a dir poco invasivi, sono anche la proiezione di un ego narcisistico o di uno sdoppiamento di personalità. E graficamente i grattacieli si confondono con microchip e reti informatiche. Purtroppo l’autrice guarda eccessivamente agli occhi tondi del manga come molti della sua generazione, che dovrebbero guardare di più, per esempio, ad Al Capp o Harvey Kurtzman. E il suo metafumetto concettuale in forma slapstick tecnicamente non ha sempre la forza plastica ed espressiva di cui necessiterebbe. Cosa che invece riesce a Francesca Ghermandi, un’artista che è l’unica ad avere la forza plastica di un Jack Cole e di altri grandi del fumetto popolare statunitense, maestri del fumetto di gomma. Ma Il grande vuoto resta importante, per la sua vertiginosa follia e la dirompente voglia di sperimentare. Francesco Boille

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Questo articolo è uscito sul numero 1505 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati