La sera del 6 agosto 2020 David Graeber annuncia su Twitter di aver finito il libro che da quasi dieci anni sta scrivendo con l’archeologo David Wengrow. Un mese dopo, il 2 settembre, muore all’improvviso a Venezia. Aveva 59 anni, era uno dei più importanti antropologi contemporanei e ha lasciato in giro per il mondo una moltitudine di amici, compagni ed estimatori. Il libro, appena pubblicato negli Stati Uniti (in Italia uscirà a febbraio per Rizzoli), si intitola The dawn of everything, l’alba di ogni cosa.

Su Internazionale uscì in copertina nel 2018 un articolo in cui i due autori presentavano la tesi al centro del loro lavoro. Di solito la storia dell’umanità viene raccontata secondo un percorso lineare. “Ciò che invece dimostrano le prove disponibili è che la traiettoria della storia umana è stata molto più varia di quanto tendiamo a pensare”, ha scritto Giulio Ongaro recensendo il saggio su Jacobin. “Non abbiamo mai vissuto permanentemente in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori e non abbiamo mai avuto forme egualitarie permanenti. Se c’è un tratto distintivo della nostra condizione preistorica è la sua capacità spiazzante di muoversi lungo uno spettro vasto di sistemi sociali con differenti forme di natura politica, economica e religiosa. Per Graeber e Wengrow l’unico modo di spiegare questa varietà caleidoscopica di forme sociali è supporre che i nostri antenati non erano così stupidi, erano attori politici consapevoli, capaci di modellare i propri assetti sociali a seconda delle circostanze”.

Il fulcro del ragionamento è lo stesso che ha guidato Graeber per tutta la vita: “Mi interessa l’antropologia perché mi interessano le possibilità umane”, aveva detto una volta. Per lui era un dato di fatto che le cose non dovessero per forza essere come sono. “Visto che non sappiamo se un mondo radicalmente migliore è impossibile”, aveva scritto in Frammenti di antropologia anarchica (Elèuthera 2006), “mi chiedo se non tradiamo la fiducia delle persone quando continuiamo a giustificare e riprodurre questo casino che ci ritroviamo tra le mani”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 5. Compra questo numero | Abbonati