Oggi Angela Davis ha 78 anni, ha insegnato a lungo all’Università della California a Santa Cruz e nel 2020 la rivista Time l’ha inclusa tra le cento persone più influenti del mondo. Nel 1970, a 26 anni, fu accusata del rapimento e dell’uccisione di un giudice. Finì nella lista dei criminali più ricercati dall’Fbi, fu arrestata e poi rinchiusa in carcere in isolamento.

Intervistata la settimana scorsa dal Guardian in occasione dell’uscita della nuova edizione della sua autobiografia, Davis spiega che era “terrorizzata all’idea di finire nella camera a gas della prigione di San Quentin. Ronald Reagan, Richard Nixon e J. Edgar Hoover lo volevano. Tante persone erano convinte che, nonostante la mia innocenza, avrei fatto la fine di Sacco e Vanzetti. Fu terrificante”.

Mentre era in carcere, cominciò una mobilitazione internazionale senza precedenti per chiederne la liberazione. Appoggiata non solo da militanti e intellettuali (John Lennon e Yoko Ono scrissero per lei la canzone Angela, i Rolling Stones le dedicarono Sweet Black Angel), ma anche da tantissime persone comuni in tutto il mondo. “Ricevetti più di un milione di cartoline dagli scolari della Germania Est. Dovevano mandarmi una rosa per il mio compleanno, così disegnarono delle rose sulle cartoline. La campagna si chiamava 1 Milione di rose per Angela Davis. Arrivavano in grandi sacchi postali. Ora sono conservate negli archivi dell’università di Stanford”.

Angela Davis fu poi assolta con formula piena, rilasciata, e poté riprendere il suo impegno di militante comunista, femminista, per i diritti degli afroamericani e per l’abolizione del carcere. Nell’intervista al Guardian racconta quanto per lei sia stato sempre fondamentale l’ottimismo. Perfino nei momenti più bui e difficili, come quand’era in cella con la prospettiva di finire in una camera a gas.

“Abbiamo bisogno di speranza. Non possiamo fare nulla senza ottimismo. La mia amica Mariame Kaba, che fa parte del movimento per l’abolizione del carcere, dice che la speranza è una disciplina. Il nostro lavoro è coltivare la speranza. Ed è questo che cerco di fare sempre”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero | Abbonati