Il Ruanda è un paese di cui si parla con una certa regolarità nelle pubblicazioni accademiche, soprattutto a proposito del genocidio del 1994, ma solo il 3 per cento di tutti gli studi sul Ruanda è scritto da ruandesi. “I ricercatori ruandesi”, scrive Ciku Kimeria su Quartz, “non sono neppure considerati esperti del loro stesso paese”, e questo non è dovuto al fatto che ce ne siano pochi.

Un gruppo di studiosi ha svolto una ricerca, durata otto anni, su dodici riviste accademiche di diverse discipline uscite tra il 1994 e il 2019. In quel periodo sono stati pubblicati 398 articoli sul Ruanda e solo 13 avevano dei ruandesi tra gli autori o i coautori.

In pratica, venticinque anni di letteratura accademica sul genocidio sono stati scritti quasi interamente senza i ruandesi.

Ma è un’esclusione che fa parte di un meccanismo molto diffuso e non solo in ambito scientifico: la sistematica rimozione dal dibattito pubblico di quelle che Kimeria definisce “minoranze di potere”. Come le donne o le persone non bianche, che non sono minoranze dal punto di vista numerico, ma lo diventano quando si entra nelle stanze del potere.

L’esclusione attraversa i generi, le divisioni etniche, gli orientamenti sessuali, le religioni. E per combatterla non basta aumentare la diversità di voci, che è solo una parte della sfida.

L’altra, dice sempre Kimeria, è far sì che queste persone siano trattate da pari, non solo ascoltate. Inoltre, chi appartiene a una minoranza e arriva in una posizione di potere, spesso ha la responsabilità di rappresentare un gruppo etnico o un intero continente. Compito che invece non ha chi appartiene alla maggioranza e ha il privilegio di essere visto sempre come un individuo.

“La prossima volta che parlate in un incontro pubblico, o che cercate un esperto”, dice Kimeria, “chiedetevi chi è rimasto fuori e cosa potete fare, dalla vostra posizione di potere, per far sì che la sua voce sia ascoltata”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1464 di Internazionale, a pagina 7. Compra questo numero | Abbonati