Mentre le manifestazioni di protesta contro la violenza razzista proseguono in tutti gli Stati Uniti, colpiti da una micidiale pandemia, un gruppo di giornalisti, scrittori, artisti e studiosi ha preso posizione contro “l’atmosfera opprimente che finirà per danneggiare le cause più importanti del nostro tempo”.
In una lettera aperta pubblicata sul sito di Harper’s Magazine, 153 persone del mondo della cultura, tra cui J.K. Rowling, Fareed Zakaria e Malcolm Gladwell, hanno denunciato il diffondersi di una cultura caratterizzata “dall’intolleranza nei confronti delle opinioni diverse, la moda dell’umiliazione pubblica e dell’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale”. Gli autori del breve manifesto sostengono che “forze illiberali” stanno guadagnando terreno in tutto lo spettro politico, ben oltre la destra radicale e i sostenitori di Donald Trump, e che gli scrittori e gli intellettuali stanno pagando gravi conseguenze professionali per “quelle che sono percepite come parole e opinioni trasgressive”.
È facile condividere il messaggio della lettera, apparentemente a favore del “libero scambio di informazioni e idee”, soprattutto in un momento in cui il presidente degli Stati Uniti è diventato nemico del primo emendamento e della libertà di stampa. Ma nel clima di tensione che caratterizza oggi il mondo dell’informazione, quella lettera ha scatenato un acceso dibattito. Negli ultimi anni, a difendere la “libertà d’espressione” sono state spesso persone di potere in risposta a chi le criticava chiedendo che si assumessero la responsabilità dei danni che avrebbero potuto provocare con i loro discorsi. Molte di queste persone definiscono le conseguenze delle loro idee cancel culture (la tendenza ad attaccare persone famose per comportamenti ritenuti sbagliati chiedendone le dimissioni, il licenziamento o il boicottaggio dell’opera), un’espressione vaga e provocatoria usata spesso in modo difensivo. La lettera allude vagamente anche a casi di persone messe a tacere dopo aver scatenato complicate discussioni, spesso a proposito del razzismo istituzionale.
Che i firmatari di una lettera di denuncia della presunta limitazione della libertà d’espressione siano tra i personaggi più pagati e pubblicati nel loro campo è ovviamente un paradosso. Molti dei giornalisti che l’hanno firmata hanno lavorato o collaborato con giornali come il New Yorker, il New York Times, Vox, il Washington Post e questa stessa rivista. Altri – come Rowling, Salman Rushdie e Wynton Marsalis – sono noti in tutto il mondo. Gli studiosi che figurano nella lista insegnano in università prestigiose come Harvard, Yale, Stanford e Columbia. È significativo il fatto che l’atteggiamento censorio da loro considerato una piaga nazionale non è il razzismo che impedisce ai giornalisti neri di occuparsi di questioni politiche. La lettera denuncia “l’imposizione di limiti al dibattito, sia da parte di governi repressivi che di società intolleranti”, sfumando volutamente la distinzione tra i due casi. Ma la preoccupazione principale che esprime non è l’ostilità di certi governi verso la stampa. Eppure il problema dei giornalisti e degli intellettuali nel mondo non sono gli attacchi che possono subire su Twitter.
Per denunciare più efficacemente le minacce che i giornalisti subiscono in tutto il mondo o la violenza e l’insicurezza economica che colpiscono in modo sproporzionato certi gruppi di persone, bisognerebbe prima di tutto ammettere che i tweet critici non sono una forma di censura. Ma la generica lettera pubblicata da Harper’s è dannosa soprattutto a causa dei problemi che non nomina.
Rowling, e i giornalisti Jesse Singal e Katie Herzog, per esempio, negli ultimi anni sono stati aspramente criticati per i loro commenti sulle persone transgender (contribuendo, secondo alcuni, a creare un clima in cui il tasso di abusi, disoccupazione e suicidi tra i transessuali è sproporzionatamente alto). In risposta a queste critiche, autori come Singal invocano l’importanza di un “dibattito aperto” e della “libertà d’espressione”, pur continuando a scrivere articoli di copertina su riviste come l’Atlantic. Questo la lettera non lo dice. Inoltre mette tacitamente il comportamento del presidente Trump nei confronti dei mezzi d’informazione e il suo aperto disprezzo per la stampa sullo stesso piano dell’indignazione dei suoi firmatari alla prospettiva di essere attaccati su Twitter o licenziati a causa della brigata dei “paladini della giustizia sociale”. Lo scrittore Thomas Chatterton Williams, ispiratore della lettera, ha dichiarato al New York Times che alcuni degli eventi che hanno provocato quella dichiarazione riecheggiavano il comportamento di Donald Trump, definito “canceler in chief”. Ma sarebbe più giusto definire Trump un demagogo violento e un bugiardo razzista. Ed è importante ricordare che il presidente non è un troll di Twitter, ma il capo di un apparato di sicurezza estremamente potente.
Breve e ambigua
Ed è proprio qui il paradosso dell’invito a tornare a un’era (mai specificata) in cui si discuteva civilmente. Affermazioni come quelle della lettera partono da un presupposto fondamentale: che l’idea romantica di “dibattito aperto” è intrinsecamente democratica e che il dialogo è veramente “aperto”. Argomento che si accoppia perfettamente con l’ossessione per la mitica obiettività dei mezzi d’informazione. Ma il discorso pubblico è sempre governato da una serie di regole implicite. Troppo spesso le persone che tessono le lodi della libertà d’espressione da dietro lo schermo di un computer nei quartieri ricchi di New York non hanno mai dovuto superare grandi ostacoli per esprimere le loro idee.
Per parlare in buona fede di princìpi come la libertà d’espressione bisogna ammettere alcune verità basilari: essere criticati su Twitter, essere sottoposti a una verifica nel posto di lavoro o vedersi stroncare un libro non intacca i nostri diritti né minaccia la società liberale.
Per essere più convincenti nel dichiararsi a favore della libertà d’espressione bisognerebbe ricordare la storia della discriminazione nel giornalismo, nelle università e nella letteratura. Ma la breve e ambigua lettera pubblicata da Harper’s non tiene conto della complessità delle forze che oggi condizionano il dibattito aperto. Chi può esprimere le proprie idee impunemente? Chi è scoraggiato dal farlo? A chi viene impedito? Chi non può permetterselo, visto che riviste come Harper’s ancora non pagano i loro stagisti? Affrontare seriamente questi problemi, invece di atteggiarsi a moralisti, contribuirebbe veramente a creare le condizioni per un dialogo pubblico stimolante. Invece, nell’impeto di idealizzare il disaccordo civile, i presunti difensori della libertà d’espressione usano la stessa logica circolare che da generazioni garantisce il potere alle élite. E non c’era bisogno di una lettera aperta per ricordarcelo. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati