Le dinamiche interne alle dittature si rivelano spesso nei loro sistemi penitenziari, proprio per il carattere profondamente oppressivo di questi regimi. I diari dal carcere fanno luce in maniera netta su simili meccanismi arbitrari, dissipando così un po’ dell’opacità che gli apparati autoritari usano per proteggersi.

L’antropologa franco-iraniana Fariba Adelkhah, detenuta dal giugno 2019 al febbraio 2023, va oltre questo tipo di letteratura nel suo Prisonnière à Téhéran (“Prigioniera a Teheran”, Seuil 2024). Adelkhah mobilita infatti la sua lunga esperienza di ricercatrice per fornire una formidabile analisi dall’interno della prigione di Evin, destinata a stroncare la contestazione prima sotto il regime dello scià e poi sotto la Repubblica islamica.

L’autrice racconta i meccanismi che oppongono, all’interno di Evin, i Guardiani della rivoluzione, braccio armato del regime, e il ministero dell’intelligence, incaricato della repressione. Ciascuno dei due apparati dispone dei suoi centri per gli interrogatori e la detenzione, e solo dopo la pronuncia della sentenza una condannata è generalmente trasferita nel braccio femminile di Evin. In questa sezione ci sono solo le detenute per motivi di “sicurezza”.

Fariba Adelkhah, incarcerata per sette mesi in segreto dai Guardiani della rivoluzione, è stata trasferita a Evin nel corso di uno sciopero della fame durato settimane. Nell’ottobre 2020 è passata nelle mani del ministero dell’intelligence, dopo la condanna a una pena ingiusta a cinque anni di reclusione per “attentato alla sicurezza nazionale” e “propaganda contro il regime”. Poi è stata messa in libertà condizionata. Ma i Guardiani della rivoluzione, con un falso retrodatato, nel gennaio 2022 l’hanno riportata a Evin. Lì nel febbraio 2023 Adelkhah ha ricevuto la grazia dell’ayatollah Ali Khamenei.

Adelkhah ha rivendicato lo status di “prigioniera scientifica”, perseguitata per le sue attività di ricerca. Nonostante questo, ha creato con le sue compagne di detenzione dei rapporti che, tra ritratti e aneddoti, compongono alcune delle pagine più coinvolgenti del libro.

Si scoprono l’organizzazione dello spazio e funzionale del carcere, i compiti svolti e lo scambio di servizi, i problemi legati all’intimità, all’igiene, al cibo o alle famiglie, il tutto sullo sfondo dei rapporti più o meno tesi con le guardie e l’amministrazione. Nel capitolo “Rondine non si nasce, si diventa”, l’autrice s’interroga su quello che spinge una detenuta a diventare un’informatrice, una “rondine” nel gergo carcerario. Nonostante i numerosi gesti di solidarietà tra detenute, “più frequente del dono, il furto è parte integrante della quotidianità a Evin, per necessità, per avidità o per pura cattiveria”.

Apostate e militanti

Il braccio femminile è strutturato sulla base delle affiliazioni e delle opinioni. Ci sono le realiste, divise tra sostenitrici dei Pahlavi (l’antica dinastia regnante) e semplici seguaci del principio monarchico; le mujahidin del popolo, “nemiche giurate della Repubblica islamica”, che però “rispettano più scrupolosamente le norme religiose”; le seguaci dei dervisci, che rifiutano l’autorità dell’ayatollah; le convertite al cristianesimo e le bahá’i, considerate apostate dal regime; ma anche militanti di sinistra di vari orientamenti, ambientaliste, operaie che hanno osato scioperare o studenti attiviste.

La prigione diventa, sotto lo sguardo dell’antropologa, “il riflesso della società iraniana nel suo complesso”. Prisonnière à Téhéran offre una bella lezione di scienze sociali da parte di una studiosa che non ha mai rinunciato alla sua libertà scientifica, anche a costo di pagare il prezzo più alto. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati