Kwathi kaloku ngantsomi, c’erano nuvole troppo pigre per portare un temporale. Cascanti, basse e grigie, si contorcevano sui cespugli spinosi. C’era un orizzonte che stormiva e agitava la lunga erba secca color kaki (appena un tono più chiara delle strade di argilla, scolorite e indurite da mesi di sole implacabile).

C’è uLoli, nove anni, che cammina con rabbia verso casa.

Cammina, e il vento la sbeffeggia. Le folate sollevano il suo vestito di taffetà, le agitano il ciuffo di capelli sulla testa e le scompigliano i ciuffetti sulle tempie che aveva lisciato con tanta cura prima di uscire.

Ma lei cammina.

Determinata.

Le sopracciglia sono aggrottate. Le labbra sono contratte. I pugni, serrati.

Una goccia d’acqua sfugge alla presa di una nuvola e cade sul suo braccio dondolante e lei la strofina via con impazienza.

Le parole le bruciano attraverso gli occhi e le sanguinano dal naso. Una fiamma invisibile le si è avvolta intorno alla gola. Un tamburo silenzioso le batte nelle orecchie

Il cielo ha già fatto questo gioco, questo gioco di promesse vuote. Deridendo una comunità incrinata.

Le braccia di uLoli dondolano veloci al ritmo dei suoi tacchi, mentre lei si precipita oltre la fattoria dei Dlanga dove sono stati messi fuori dei barili sperando in un po’ di ristoro.

“Idioti”, sibila.

(Schegge di cuore le cadono nello stomaco).

Soze kuphinde kunethe”.

Le parole le bruciano attraverso gli occhi e le sanguinano dal naso. Una fiamma invisibile le si è avvolta intorno alla gola. Un tamburo silenzioso le batte nelle orecchie. Un uomo grasso è seduto sulla sua vescica. Lei non sa come si chiama questa sensazione e non le interessa saperlo.

Cammina più forte.

È inutile sistemare i collant che scivolano giù e si arrotolano intorno alle caviglie.

È quasi a casa.

E quando sarà a casa si toglierà questi abiti della misura sbagliata;

questo vestito, troppo largo sulle spalle, queste scarpe troppo strette in punta.

Scioglierà le migliaia di ricci che ha stretto in una coda e si toglierà i collant troppo grandi.

Intanto sfrega via con il dorso della mano la vaselina che le lucida le labbra.

E va avanti, respingendo il vento quando le tira uno dei tanti strati del suo abito bianco di Natale (troppo elegante per un giovedì pomeriggio di ottobre). Ma il vento si vendica raccogliendo il profumo dalla sua pelle e spingendoglielo in faccia, affogandola nell’odore di iyeza. L’odore le ricorda l’acqua rosa bollente in cui si era immersa quella mattina. L’acqua rosa, con le foglie secche che galleggiavano in superficie, che prometteva una cura, o almeno una parvenza. La promessa di guarirla dalla sfortuna o di nasconderla.

Quando le nuvole si addensano a quel modo, la gente si chiude in casa come per concedere al cielo un po’ di intimità, ma uLoli avanza da sola attraverso il villaggio come un presagio.

Era stata mandata in missione per riconquistare l’amore di suo padre. Lavata con l’iyeza, per mascherare l’izothe con cui sua madre dice che è nata, doveva mettersi davanti a lui e strapparlo all’indifferenza. Sua madre le aveva dato un profumo forte da mettere nell’acqua del bagno e le aveva detto che vedendolo l’avrebbe riconosciuto. Un uomo alto, un bell’uomo, aveva detto. Aveva detto che uLoli doveva mettere il vestito migliore e non sembrare una disperata. Doveva fare gli occhi dolci e sorridere, invece di sembrare così matura e stagionata. Doveva genuflettersi. Fargli vedere la pagella.

La pagella!

uLoli si ferma e nel petto qualcosa le sbatte contro qualcos’altro. Il vento la fa girare e la costringe a guardare la lunga strada appena percorsa. Lei apre i pugni come se si aspettasse di vedere il foglio piegato in una delle mani. Non c’è niente. Non riesce neanche a immaginare dove può averlo perso. Strizza gli occhi cercando di pensare, ma non riesce a ricordare niente tranne le parole di suo padre.

Xelela unyoko ukuba izinto zokudlala zibhalweMade in China’”.

Gli occhi di uLoli guizzano senza meta nell’aria davanti a lei, senza posarsi su nulla, senza mettere a fuoco niente, guardando tutto. Un’altra goccia d’acqua atterra sulla sua guancia riportandola alla realtà: ha perso la pagella, la lettura preferita di umakhulu dopo la Bibbia. Torna sulla strada da cui è venuta, ma rallenta ricordandosi che sua madre le ha raccomandato di non farsi picchiare da umakhulu. Ora sarà sicuramente di ritorno dalla riunione dell’Associazione delle madri e non può sapere che uLoli si è messa il vestito di Natale, che è andata a casa di suo padre dopo aver fatto il bagno in quella medicina (umakhulu non crede che esistano le seconde possibilità). uLoli rallenta fino a fermarsi. Si volta di nuovo e ricomincia a camminare furiosamente verso casa.

Iyhuuuuu!”, sospira mentre i polmoni si svuotano dolorosamente, “uzakuphambana umakhulu!”.

uLoli si ferma e nel suo petto qualcosa sbatte contro qualcos’altro. Il vento la fa girare e la costringe a guardare la lunga strada appena percorsa. Lei apre i pugni come se si aspettasse di vedere il foglio piegato in una delle sue mani. Non c’è niente

Ha le viscere scombussolate dalla rabbia e dalla paura. Sa a cosa è dovuta la paura; conosce la mano pesante di umakhulu. Ma la rabbia è più difficile da collocare.

Cammina più veloce.

Il vento cala.

Una macchia nera appare a terra davanti a uLoli.

E poi un’altra.

E un’altra.

E poi la pioggia arriva come uno scatto d’ira.

uLoli comincia a correre con l’acqua che straripa da un cielo sopraffatto. Ringhia mentre corre, pensando all’uomo alto e grasso colpevole di tutto questo. La pagella è sicuramente da qualche parte nel suo cortile che volteggia indesiderata e senza meta. Lei non è nemmeno riuscita a entrare a casa sua. Lui era fuori, e stava per parcheggiare la sua scintillante Corolla rossa in garage quando l’ha vista aprire il cancello. Ha alzato la mano dicendo “Yima apho!”. Si è avvicinato a lei e poi ha fissato pensoso un punto vuoto all’orizzonte. “Uthini?”, ha chiesto, come se avessero già parlato prima. uLoli ha risposto con nome, cognome, classe, nome della scuola e un sorriso. Fin lì è arrivata. Lui le ha detto che là non c’era niente per lei e le ha chiesto di riferire un messaggio a sua madre. “Xelela unyoko ukuba izinto zokudlala zibhalveMade in China’”. uLoli non ha capito bene ma ha detto che l’avrebbe riferito. Lui si è voltato e si è allontanato. L’incontro è terminato. Lei avrebbe riferito il messaggio e questa sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe fatto per lui. Sarebbe stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto per sua madre.

Corre, il vestito appiccicato alla pelle. Il corpo vibra al suono della sua mente che urla oscenità. Abbassa lo sguardo e vede i collant e le scarpe che stanno cominciando a infangarsi. uLoli smette di correre e la pioggia si rallegra rumorosamente della sua sconfitta. Sollevando il vestito, arrotola con cura le calze fino alle caviglie. Le toglie, le infila in una delle scarpe e poi comincia a camminare in fretta e con attenzione, con le scarpe in mano. La pioggia batte sulla terra assetata con così tanta forza che dei pezzi di fango saltano su e si attaccano all’orlo del vestito bianco di uLoli. Lei si ferma di nuovo, mette per terra le scarpe e si tira il vestito sopra la testa, voltandolo a rovescio. Lo arrotola in un fagotto gonfio e bagnato e se lo ficca sotto il braccio.

Continua a camminare.

Soze ndiphinde ndivase ngayeza mna”, brontola, maglietta e mutandine come stoffa bagnata contro la sua pelle. Promessa dopo promessa, urla a se stessa. Domani tornerà a giocare nella cava con uPhalo.

Domani tornerà a giocare, non le importa di chi dice cosa.

Tornerà a giocare.

uLoli non corre più e non sa quando ha smesso di correre.

Arriva al cancello e lo apre. Ha le mani grigie e grinze e la pelle d’oca sulle braccia sembra permanente.

La casa è silenziosa sotto le lamine di pioggia scrosciante. Avanza sulle piastrelle gocciolando. In cucina, si riempie i polmoni del calore della casa e lancia un’occhiata nel corridoio fino alla stanza dove la madre dorme tranquillamente nel suo letto singolo. uMakhulu non è ancora tornata. uLoli sospira cercando un sacchetto di plastica nei cassetti della cucina. Ne trova uno e ci ficca tutti i vestiti bagnati.

Una sensazione di calma la prende per mano e la guida gentilmente fuori dalla casa riportandola sotto la pioggia.

Camminano fino al gabinetto, uLoli e la sua calma, dove lei lascia cadere il sacchetto di plastica nel buio. La pioggia mormora mentre lei torna in casa

uMakhulu non chiederà mai di qualcosa che non può vedere

(come si è bagnato, perché l’hai messo, come si è macchiato)

uLoli non parlerà di cose che umakhulu non sa

(come si è bagnata, perché è sfinita, come si è macchiata)

Non sa, come lei sa, che è tutto dimenticato ora. Sa solo che è sicura.

Alza gli occhi al cielo.

La pioggia si ferma. ◆

Julie Nxadi è nata a East London, nella provincia del Capo orientale, in Sudafrica. Questo racconto è uscito sulla Johannesburg Review of Books con il titolo originale Love back. La traduzione è di Maria Giuseppina Cavallo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati