Alcuni esperti hanno ripreso a parlare di una possibile vittoria della Russia in Ucraina. Io non sono un esperto militare e non mi occuperò delle prospettive sul campo di battaglia. Ma una cosa è sicura: l’economia russa è in cattive condizioni. Quando la guerra sarà finita e Mosca avrà lasciato i territori occupati, il tenore di vita e l’industria non torneranno ai livelli di prima. E finché il paese non si sarà reintegrato nell’economia mondiale, sarà impossibile una crescita stabile.

Problemi come l’insoddisfazione per il calo del tenore di vita, la crescente disuguaglianza e le scarse possibilità di sviluppo possono influire anche sull’andamento delle azioni militari. I generali e i soldati russi si renderanno conto che stanno combattendo per conquistare città e villaggi che dovranno essere restituiti all’Ucraina. Il primo governo dopo Vladimir Putin ordinerà il ritiro delle truppe per ottenere la revoca delle sanzioni internazionali e ripristinare i commerci, dato che con le sanzioni sarebbe impossibile tornare al tenore di vita precedente e, soprattutto, a una crescita economica stabile.

C’è da aspettarsi una situazione simile a quella iraniana, cioè con un regime politico arcaico che mantiene il potere sullo sfondo di una decennale stagnazione economica. L’Unione Sovietica in una situazione simile durò circa vent’anni prima di crollare. La “stagnazione di Putin” va avanti da almeno quindici anni, dalla crisi finanziaria globale del 2008.

Il margine di sicurezza del regime attuale però è maggiore perché, rispetto all’Unione Sovietica, fa leva sull’economia di mercato e sulla proprietà privata, e perché, rispetto al sistema sovietico, è almeno finora più integrato nel circuito del commercio internazionale. D’altra parte lo scenario iraniano implica una diminuzione del tenore di vita e una ricaduta nella barbarie che la Russia non ha mai conosciuto, se non in periodi molto brevi della guerra civile nel novecento o nelle fasi più buie del terrore staliniano.

La crescita del pil di cui si parla spesso è una finzione statistica. Il pil e il pil pro capite hanno valore se considerati in rapporto agli indicatori della qualità della vita, come il tempo libero e quello trascorso con i figli, dedicato allo sport e ai viaggi, oppure la frequenza con cui si cambia auto o si comprano accessori e vestiti. In tempi normali la crescita del pil pro capite indica effettivamente l’aumento del benessere delle persone; in tempo di guerra il pil può crescere, ma il tenore di vita no.

I carri armati che bruciano vicino ad Avdiivka, in Ucraina, o i missili che bombardano le città ucraine rientrano nel pil, ma non migliorano le condizioni della popolazione russa. Se al loro posto fossero prodotti computer o automobili o fossero garantiti servizi al cittadino, migliorerebbero sia il pil sia la qualità della vita.

Missili e droni

Un altro motivo per cui durante la guerra la crescita del pil è una finzione statistica è di tipo tecnico e richiederebbe una nota di approfondimento in un manuale di macroeconomia, più che un articolo di giornale. Il pil misura il valore dei beni, cioè è calcolato in base ai loro prezzi di mercato. Questo è vero per auto, televisori, verdura, frutta, servizi, ma non nel caso di carri armati, missili e droni, che non hanno prezzi di mercato, perché la loro produzione è prevista dal governo con le risorse stanziate nel bilancio. E il loro valore tende automaticamente a gonfiarsi.

Il problema è che l’economia russa si sta adattando alle priorità militari del Cremlino. Più stipendi sono pagati nel complesso militare-industriale, più persone vengono occupate; più lo stato domanda prodotti e tecnologie militari, più cresceranno le imprese e le infrastrutture legate al settore. Tutto questo però sottrae risorse alle attività produttive.

A guerra finita, i posti di lavoro creati all’interno e intorno al settore militare-industriale dovranno essere eliminati. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, in cui il complesso militare era alimentato in modo sproporzionato, milioni di persone restarono senza lavoro, perché tutta quella produzione non necessaria non poteva più essere mantenuta. Succederà la stessa cosa anche dopo la fine della guerra in Ucraina: le aziende che oggi sono in crescita diventeranno fabbriche di disoccupazione.

In situazioni simili, come sempre, si fa strada un modo di pensare completamente irrealistico, che definirei “pensiero magico”. Che Putin e la sua cerchia vivano in un mondo di magie è comprensibile. Il presidente russo si avvinghia al potere a tutti i costi: per lui non c’è potere senza guerra e repressione. Il suo entourage invece trae profitto dalla guerra e preferisce chiudere un occhio sul prezzo che il paese pagherà in futuro. È sorprendente però che a credere alle magie siano anche le persone comuni, le cui vite sono oggettivamente peggiorate.

Niente di nuovo. Nel 2014, quando Mosca imboccò bruscamente la strada del protezionismo e dell’isolamento, spiegavo che il divieto d’importazione faceva aumentare la produzione interna, ma non in misura tale da sostituire completamente i prodotti importati. Più che altro avrebbe fatto crescere i prezzi e diminuire i consumi e il tenore di vita. Oggi le cose stanno esattamente così, e non potrebbe essere altrimenti. Ma da quel momento è stato tutto un fiorire di commentatori intenti a elaborare teorie su come la totale sostituzione delle importazioni potesse portare all’aumento del tenore di vita. Non capivano che stavano litigando con le regole dell’aritmetica. In politica invece Putin e i suoi collaboratori usano chi si illude che uno sviluppo economico sostenibile sia possibile in uno stato di isolamento internazionale.

Non è un caso che tra i sostenitori della guerra ci siano molti debitori insolventi. Non è gente che si arruola per evitare di pagare. Queste persone credono che l’Ucraina abbia attaccato la Russia e che a Zaporižžja o a Cherson si stiano difendendo gli interessi del paese, ma allo stesso tempo pensano di poter incassare cifre folli e vincere la lotteria. In realtà sono vittime di Putin, sia per la situazione militare sia per quella finanziaria. L’economia russa va male, la vita dei russi è peggiorata, ma il pensiero magico li convince che presto tutto migliorerà. ◆ ab

Konstantin Sonin è un economista russo. Insegna all’università di Chicago, negli Stati Uniti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 110. Compra questo numero | Abbonati