Recentemente, mentre facevo lezione alle studenti di una classe dell’università di Boston, negli Stati Uniti, con cui collaboro, mi è stato detto che non potevo parlare di “cose che non avessi vissuto io stesso” o sarebbe stato un “atto di appropriazione culturale”. Il tema è vecchio: le donne devono parlare di donne, i migranti di migranti, gli omosessuali di omosessuali eccetera. Capisco il punto: farsi interprete di queste persone significa non dargli la possibilità di esprimersi ed è una forma sottile di patriarcato semantico. Quando però parlo di liberazione animale e non di studi di genere – sono entrambi temi che incontro nelle mie ricerche – nessuno mi dice: “Non sei un cavallo, non puoi parlare come se lo fossi”. Mi viene in mente il commento di Lud­wig Wittgenstein quando una sua studente gli disse che si sentiva “stanca come un cane”. “Tu non puoi sapere come sta un cane!”, le fece notare il filosofo austriaco. Eppure, se non ci fosse stato qualcuno che ha interpretato la voce di altri, come a volte provo a fare io, non avremmo mai restituito a queste voci la possibilità di mettere a tacere la mia. Ora, non so bene cosa significhi lavorare perché gli animali possano aveva una loro voce, ma se un giorno l’avranno forse le prime a dover temere quel momento saranno proprio le mie studenti statunitensi, perché gli animali le rimprovereranno dicendo: “Perché non avete parlato anche voi per difenderci?”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati