Nel 1998 esce il film Aprile di Nanni Moretti, una commedia ambientata nel 1994, all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. In una scena diventata famosa, Moretti guarda i risultati in tv con la madre, poi improvvisamente dice: “La sera del 28 marzo 1994, quando vinse la destra, per la prima volta in vita mia mi feci una canna”, e ne tira fuori una enorme davanti allo sguardo rassegnato della madre.

Il 25 settembre 2022 ho guardato in tv i risultati delle elezioni insieme a degli amici italiani. Se uno di loro avesse avuto una canna, la scena di Moretti si sarebbe potuta ripetere con una simmetria sbalorditiva. Ventiquattro anni dopo l’uscita del film c’è sempre lo stesso giornalista a commentare i risultati elettorali. Nel 1994 Moretti era seduto davanti alla tv e guardava Enrico Mentana: ventotto anni dopo siamo davanti alla tv a guardare Mentana. Dato che non vedo regolarmente la tv italiana, droga ben più pesante di una canna enorme, mi ha colpito che sia il format sia la grafica dei programmi che parlano di politica siano rimasti fermi al primo decennio di questo secolo. I talk show più importanti sono condotti dagli stessi giornalisti che c’erano quando ero adolescente: su Rai 1 la sera delle elezioni regnava sovrano il quasi ottantenne Bruno Vespa, diventato famoso nel 1969 per aver raccontato la strage di piazza Fontana, che segnò l’inizio degli anni di piombo.

Giorgia Meloni ha vinto con le stesse percentuali con cui negli anni novanta e duemila Silvio Berlusconi le elezioni le perdeva

Tempo senza futuro

Questo aspetto della sfera pubblica italiana – l’ostinata monotonia di schemi che si ripetono da decenni e generano cambiamenti prevedibili – forse ci aiuta più di ogni altra cosa a capire il clima che ha aiutato Meloni a vincere, lo stesso che cinque anni fa aveva portato alla vittoria il Movimento 5 stelle. Sullo sfondo di questi esperimenti politici drammatici e disperati, si delinea una società in fase di stagnazione. Probabilmente non c’è società in Europa che sia così profondamente pervasa dalla sensazione di vivere in un tempo a cui è stato tolto il futuro. Difficile articolare questa sensazione, e non è un caso che il prodotto artistico di maggior successo che l’Italia abbia esportato negli ultimi decenni – il film La grande bellezza, di Paolo Sorrentino – affronti proprio l’ansia della società contemporanea rimasta intrappolata in un passato atrofizzato.

Anche nella coalizione vincente, guidata da Giorgia Meloni, non c’è nulla di particolarmente nuovo. È formata esattamente dalle stesse forze politiche che nel 1994 portarono Silvio Berlusconi per la prima volta al governo: la Lega (che nel frattempo, in un esperimento finito in una sconfitta, ha rinunciato alla sua caratterizzazione geografica), Forza Italia (in cui c’è sempre Berlusconi, lo stesso leader-padrone di quasi tre decenni fa) e i successori del neofascismo del dopoguerra.

Chiusura della campagna elettorale della destra a piazza del Popolo. Roma, 23 settembre 2022 (Luca Santese (Cesura), 2)

Il volto più moderato

Quello che oggi preoccupa gli osservatori stranieri (a meno che non siano proprio entusiasti sostenitori dell’estrema destra) è che gli equilibri di potere sono cambiati: il crollo della destra neoliberale, rappresentata (almeno nella retorica, se non nei fatti) da Forza Italia, ha portato all’ascesa della destra illiberale di Meloni. Inoltre, nel 1994 gli antenati politici di Meloni si stavano trasformando in una forza moderna che stava rinunciando esplicitamente al passato fascista, con un gesto simile a quello compiuto in quegli anni da molti partiti postcomunisti dell’Europa orientale e occidentale. Meloni, invece, rappresenta proprio quella parte della destra post-fascista italiana che quella svolta l’aveva criticata. La vittoria della destra nel 1994 fu il catalizzatore che permise all’allora presidente di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, di attuare un cambiamento centrista e domare i nostalgici del partito. Meloni è l’erede politica di quei nostalgici frettolosamente domati. La sua vittoria segna la fine simbolica del progetto di rinnovamento di Fini. Insomma, un ritorno alle origini. Come dice nella scena conclusiva un personaggio del già citato film di Sorrentino: “Le radici sono importanti”.

Ma per valutare correttamente la vittoria di Meloni bisogna capire due cose. La prima è che, a prescindere da come governerà (e questa resta una grande incognita: potrebbe seguire la strada del francese Nicolas Sarkozy e dello spagnolo José María Aznar o della destra illiberale polacca e ungherese), rimane il fatto che ha vinto nel momento in cui stava mostrando il suo volto più moderato. E al contrario di Marine Le Pen è stata disciplinata e coerente. Anche le sue prime reazioni dopo la vittoria sono state rassicuranti e degne di una statista. Questo non vuol dire che dovremmo essere compiacenti, significa però che l’interpretazione secondo cui “gli italiani hanno eletto dei fascisti” è esagerata. Soprattutto perché hanno scelto l’unico partito che negli ultimi dieci anni è sempre stato all’opposizione, a eccezione di un sostegno esterno concesso ai provvedimenti chiave del primo governo Conte. Il tentativo degli italiani di sfuggire alla stagnazione ha avuto la meglio sulle simpatie per il fascismo o anche su quel risentimento sciovinista praticato negli ultimi anni da molti partiti (dal Partito popolare spagnolo al Partito democratico sloveno), che fanno parte del Partito popolare europeo.

La seconda cosa da capire è che la coalizione di destra riunita intorno a Giorgia Meloni ha vinto con le stesse percentuali con cui negli anni novanta e duemila Silvio Berlusconi le elezioni le perdeva. Meloni, con il suo atteggiamento paternalista più che autoritario, ha conquistato gran parte degli elettori che nel 2018 avevano scelto la Lega di Salvini, assicurandosi che la coalizione di destra mantenesse più o meno i voti di quattro anni fa. Il calo dell’affluenza alle urne (la più bassa nella storia della repubblica italiana) ha colpito solo gli altri partiti. Ma non è solo questo dato che ha permesso a Meloni di vincere: i seggi assegnati alla coalizione di destra alla camera dei deputati con il metodo proporzionale sono stati 114, mentre quelli ai partiti che d’ora in poi siederanno all’opposizione, sono stati 130. Solo un ottimo risultato nei collegi uninominali, in cui i parlamentari sono eletti secondo il sistema maggioritario a turno unico, le ha permesso di vincere. Nei collegi uninominali la destra ha vinto l’83 per cento dei seggi.

È un paradosso il fatto che Fratelli d’Italia nel 2017 abbia votato contro questo sistema elettorale, frutto di un accordo tra il Partito democratico e la destra all’epoca guidata da Berlusconi nel tentativo di ostacolare il Movimento 5 stelle e imporre di nuovo un carattere bipolare al sistema politico, che dal 2013 è decisamente multipolare. Meloni salirà così al potere con il più basso sostegno elettorale mai raggiunto da una qualsiasi coalizione di governo italiana dal dopoguerra. I partiti della sua coalizione rappresentano solo il 44 per cento di chi è andato a votare. Inoltre bisogna tenere conto che l’affluenza è stata molto bassa. L’opposizione ha avuto una maggioranza quasi assoluta nelle urne, ma è interamente responsabile della sua sconfitta in termini di seggi.

I partiti di centrosinistra hanno affrontato divisi la competizione elettorale: in un sistema in parte maggioritario uninominale significa consegnare la vittoria all’avversario. È stato un suicidio annunciato: possiamo solo essere sorpresi dal fatto che la smobilitazione dei loro sostenitori non sia stata maggiore. La somma delle percentuali delle forze che componevano il secondo governo Conte, di cui hanno fatto parte Movimento 5 stelle, Partito democratico, Liberi e Uguali e Italia viva (e che, a differenza del governo Draghi, non può essere accusato di essere stato tecnocratico o di “non aver rispecchiato la volontà democratica del popolo”) è superiore alla percentuale di qualsiasi coalizione politica italiana degli ultimi trent’anni. Ma a causa delle divergenze politiche questi partiti non hanno presentato agli elettori un programma comune per il futuro, subendo così una sconfitta pesante. Forse è una punizione giusta in un paese che aspira soprattutto ad avere qualcuno che gli restituisca la speranza di un futuro migliore. ◆ ab

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati