In un articolo scritto ad agosto per Harper’s Magazine il giornalista Joseph Bernstein ha messo in dubbio l’idea che la crisi di fiducia nelle istituzioni democratiche occidentali nell’era della Brexit e di Donald Trump sia colpa della disinformazione diffusa sui social network. Secondo Bernstein per spiegare la diffidenza nei confronti di vaccini e mascherine negli Stati Uniti è più utile concentrarsi sul rapporto tra i cittadini statunitensi e la sanità pubblica che sul potere ipnotico di Facebook. “Perché siamo stati così pronti ad abbracciare la versione della Silicon valley su quanto facilmente ci lasciamo manipolare?”, si chiede. Bernstein fa risalire il presunto potere dei social network a discutibili ricerche degli anni sessanta, che tendevano a “considerare il compratore come una vittima e una preda”. Dopo l’11 settembre questo punto di vista è stato sovraccaricato dalla ventennale guerra al terrorismo promossa dagli Stati Uniti. E ora i nodi vengono al pettine.

I concetti di radicalizzazione, controradicalizzazione e deradicalizzazione sono costruiti su un presupposto simile, secondo cui le società e le persone musulmane sarebbero facili da manipolare. Invece di interrogarsi sulle ragioni che spingono una minoranza a fare ricorso al terrorismo, gli Stati Uniti e l’occidente hanno preferito incolpare predicatori “radicali” che diffondono propaganda antioccidentale, una specie di Facebook del Medio Oriente.

Invece di interrogarsi sulle ragioni che spingono le minoranze a fare ricorso al terrorismo, l’occidente ha preferito incolpare i predicatori “radicali”

Di fronte al rifiuto dell’immagine trasmessa di un occidente benevolo o, nella peggiore delle ipotesi, sinceramente ma tragicamente innocente, i principali mezzi d’informazione, i governi e i ricercatori in Europa e in Nordamerica hanno preferito descrivere i musulmani come sempliciotti, facili prede degli incantesimi lanciati da religiosi arrabbiati con barbe e tuniche fluttuanti. Secondo Bernstein i governi occidentali si stanno comportando allo stesso modo nei confronti dei loro cittadini meno accondiscendenti, che in una minoranza dei casi possono costituire una minaccia terroristica.

Nel mondo non occidentale alcuni governi con inclinazioni autoritarie si sono attaccati all’idea di radicalizzazione per oscurare i veri motivi del malcontento dei loro cittadini. Per esempio le autorità keniane – che negli ultimi sessant’anni hanno portato avanti politiche coloniali emarginando i musulmani e in particolare la popolazione di etnia somala – hanno fatto solo piccoli riferimenti a quelle discriminazioni quando hanno dovuto fare i conti con la frustrazione della popolazione e il terrorismo. Anche se il 90 per cento degli attacchi terroristici è avvenuto dopo l’invasione della vicina Somalia nell’ottobre del 2011, in pochi hanno ammesso che le due cose potevano essere collegate. Il governo, seguito dai mezzi d’informazione, si è ispirato agli Stati Uniti, dando la colpa ai predicatori “radicali” e uccidendone alcuni senza nemmeno processarli.

Ovviamente i predicatori che esaltano la violenza hanno degli effetti: possono convincere una piccola minoranza di seguaci a compiere gesti orribili. Tuttavia, un po’ come la disinformazione sui social network, il loro impatto è stato molto esagerato da chi aveva interesse a farlo. Bernstein sostiene che la propaganda o l’incitamento non avrebbero alcuna efficacia senza una pre-propaganda, che a suo avviso è il contesto sociale, culturale, politico e storico. Questo contesto può essere considerato il terreno in cui le idee violente possono mettere radici. Ignorarlo e concentrarsi solo su Fox News o sui predicatori radicali può portare a soluzioni perverse.

Nel suo discorso sui limiti dell’alfabetizzazione mediatica alla conferenza Sxsw Edu del 2018 ad Austin, in Texas, Danah Boyd, fondatrice dell’istituto di ricerca Data & Society, osserva che “di base la disinformazione è contestuale”, cioè quello che costituisce propaganda dipende da chi la definisce come tale. Boyd afferma che le guerre culturali tra “progressisti” e “conservatori” negli Stati Uniti sono in realtà controversie sull’epistemologia – come sai quello che sostieni di sapere – che non si possono risolvere con la verifica dei fatti o il compromesso. Per Boyd gli sforzi compiuti da molti esponenti delle élite progressiste per smascherare le credenze degli elettori di Donald Trump sono “asserzioni di autorità sull’epistemologia” e servono a diffondere una singola verità.

Sulla scena mondiale, dove la guerra al terrorismo ha trasformato le guerre culturali degli Stati Uniti e i metodi usati per combatterle in quello che Samuel Huntington ha definito uno “scontro di civiltà”, questa affermazione di un’unica verità veicolata dai profeti occidentali, che negano l’esperienza di gran parte del resto del mondo, è stata alla base degli sforzi di deradicalizzazione. Eppure questi sforzi possono avere effetti completamente opposti. Come osserva Boyd, “niente può radicalizzare una persona più della sensazione che qualcuno gli stia mentendo”. ◆ gim

patrick gatharaè un vignettista e scrittore keniano. Cura il sito The Elephant. Questo articolo è uscito su Al Jazeera.

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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati