“Il sacco a pelo è attaccato allo zaino?”, chiedo. Il mio amico Jan alza lo sguardo e scopre che il sacco a pelo non c’è più, dev’essere caduto dopo l’ultima sosta. Metto giù lo zaino, torno indietro sul sentiero e dopo neanche dieci minuti lo ritrovo.

Se fossi rimasto senza avrei dovuto interrompere l’escursione due giorni dopo la partenza. Di notte in tenda sarei morto di freddo, perché qui nel parco nazionale di Femundsmarka, in Norvegia, anche a giugno le temperature scendono fino a cinque gradi. Tutto quello di cui potremmo aver bisogno in mezzo alla natura ce lo portiamo in spalla: tenda, provviste e poco altro. Devo aver legato male il sacco a pelo allo zaino: un piccolo errore può avere enormi conseguenze.

Nel parco nazionale Femundsmarka, al confine con la Svezia, si può contare solo su se stessi. I sentieri ci portano attraverso i paesaggi tipicamente nordici: aperti, montuosi, con pochi alberi e molti laghi cristallini. Incontriamo non più di tre persone al giorno, esattamente quello che volevamo.

Io e Jan siamo consapevoli d’inseguire uno stereotipo: quello di ritirarci dalla civiltà caotica portando con noi solo lo stretto indispensabile, liberandoci delle zavorre del quotidiano. Fuggire dalle preoccupazioni e fare a meno delle tensioni. La speranza è di ritrovare se stessi grazie a un’attività fisica faticosa, accompagnata dallo scrosciare dei ruscelli e dal canto di uccelli mai sentiti. Un viaggio tra la natura scandinava sa subito di disintossicazione da social network, del kitsch che circonda la mindfulness (consapevolezza) e di salvifica rinuncia.

In cerca di una mappa

Jan dice di non voler aprire WhatsApp per una settimana perché lo usa molto per lavoro. Io invece prima di partire avevo la sensazione di passare troppo tempo seduto, con gli occhi stanchi fissi sullo schermo. Non volevamo altro che passare un po’ di tempo insieme. Ormai sono vent’anni che ci conosciamo, ma in certi periodi il nostro rapporto è meno intenso. Colpa del lavoro e di tutte le incombenze quotidiane. Così qui ci ritroviamo con tante cose da raccontarci.

All’inizio del nostro viaggio, però, non abbiamo tempo per discorsi profondi. Il giorno prima dell’incidente con il sacco a pelo, la sera abbiamo raggiunto la piccola località di Elgå sul lago Femund, dove finisce la strada. Vorremmo una mappa per individuare un bel sentiero ad anello, ma il centro informazioni del parco nazionale è chiuso. Allora andiamo a bussare al campeggio, lì ne avranno sicuramente una. Una donna, che alloggia nel bungalow di fronte, ci consiglia di decidere giorno per giorno dove andare, in base al meteo. Da bravi turisti tedeschi volevamo seguire un itinerario prestabilito, ma abbandoniamo il piano originario e ci sentiamo subito più liberi. Rimane da capire dove dormire. Vogliamo lasciare subito Elgå. Non è un problema perché a giugno in Norvegia non fa mai buio del tutto. Prendiamo un sentiero che attraversando il bosco ci porta al rifugio di Svukuriset. Aguzziamo la vista alla ricerca di un posto in cui accamparci, ma qui il terreno non è ideale: tra cespugli e rovi non ci sono zone pianeggianti. Finalmente troviamo uno spiazzo accanto a due cataste di legna, tra escrementi di caprioli e formicai, ma va bene lo stesso.

La tenda è stata tre anni in fondo all’armadio. All’inizio non riesco a montarla. Le palpebre mi pesano per la stanchezza del viaggio: settecento chilometri da Stoccolma al parco nazionale. Finalmente la tenda sta in piedi. Gonfiamo i materassini, accendiamo il fornelletto, scaldiamo l’acqua, cuociamo un pasto liofilizzato. Non ne posso già più di occuparmi di me stesso.

Il primo giorno dormiamo fino a tardi, poi seguiamo un rituale che si ripeterà ogni mattina: mettere le lenti a contatto, uscire dal sacco a pelo, vestirsi, uscire dalla tenda, fare le abluzioni mattutine, preparare il caffè e la colazione. E ancora: arrotolare il sacco a pelo e il materassino, smontare la tenda, fare lo zaino, prendere mappa e telefono, cercare il nord. Per completare tutta la procedura ci vuole un’ora e mezza.

Ci lasciamo alle spalle il rifugio di Svukuriset e imbocchiamo un altro sentiero. Andiamo verso il valico, in direzione di Sylen. Poco dopo il valico dovremmo incontrare un lago. Camminiamo piano perché gli zaini pesano e il terreno è pieno di rocce. Arriviamo al valico che è già tardo pomeriggio e il sole splende su una pianura deserta e senza vento. Non c’è anima viva. Passiamo lì la notte. Al mattino ci sveglia il rumore della tenda scossa dal vento. La temperatura è vicino allo zero e decidiamo di rimandare il rito del caffè. Appena partiti ci imbattiamo in altri rovi e in un bosco di betulle.

Oltrepassato il lago, invece di un sentiero segnato seguiamo un itinerario gps trovato da Jan su un’app di trekking. Giriamo intorno alla montagna di Grøthogna, seguiamo il corso di un fiume fino a una pianura desolata e continuiamo a camminare in un pomeriggio che sembra non finire mai. Sulla riva del fiume troviamo un posto in cui accamparci. Il sole che tramonta illumina il bosco di betulle in modo così spettacolare da sembrare un paesaggio creato al computer per un’epopea fantasy.

Lontano dalla civiltà

Ci svegliamo alle tre e mezzo del mattino e con i primi raggi di sole riprendiamo il nostro giro. Presto però diventa nuvolo. Ci aspettano vaste paludi e comincia a fare freddo. Capita di sbagliare strada e di dover tornare indietro. Finalmente la valle si allarga, torna spoglia e costellata di rocce. Due ore dopo siamo di nuovo lungo il corso di un fiume, che questa volta scorre impetuoso. Si sente il profumo dei pini e sembra quasi di essere a Yellowstone, negli Stati Uniti, o in Canada. La sera montiamo le tende vicino a un lago. La cena riserva sempre una certa suspense: pasta primavera o pollo tikka masala? Avere così poca scelta non è male.

Mi chiedo se lontano dalla civiltà ho imparato qualcosa su me stesso. In realtà nulla che non sapessi già. Mi illudo di conoscermi ormai abbastanza bene e di sapere cos’è meglio per me. A casa ho spesso la sensazione che la mia testa sia come una scatola in cui giorno dopo giorno getto le cose con disinteresse fino a perdere la percezione di quel che contiene. Non distinguendo più quello che è veramente importante da quello che è solo urgente. Ogni giorno arrivano stimoli da mille parti, cose serie e futili si alternano a una velocità tale da impedire ogni elaborazione. Da tempo penso che il vero nemico non è il mio animo inquieto, ma il multitasking.

I giorni nel parco nazionale, invece, sono piacevolmente scanditi: dedichiamo tutta la nostra attenzione a una cosa e solo dopo passiamo a quella successiva, senza distrazioni. Anche perché ogni azione ha più conseguenze di quante non ne avrebbe a casa. Non riempire per tempo le borracce significa non avere acqua per cucinare. Mettere le lenti a contatto con le dita sporche può causare un’infiammazione all’occhio. Un sasso appuntito sotto la tenda potrebbe bucare il materassino. E portandoci dietro tutta la nostra spazzatura ci rendiamo conto di quanti scarti di plastica produciamo ogni giorno.

Certo ci sono anche le ricadute: c’è rete quasi ovunque e può capitare che per qualche minuto ci perdiamo nelle app che nella vita normale rubano gran parte del nostro tempo. Però qui mi sento più attento e presente che mai. Jan è convinto che ci si sia aguzzata la vista perché guardiamo lontano molto più del solito. Le nostre giornate sono piene di cose semplici: camminare, cucinare, mangiare, mettere a posto e parlare. Tra vecchi amici per cogliere certe cose non servono conversazioni profonde e piene di spiegazioni. Jan e io ci siamo aggiornati sulle nostre vite senza però sviscerare ogni questione. Abbiamo passato anche molto tempo a dire stupidaggini: perché i legami si nutrono, più di quanto non si creda, soprattutto di futilità, di cose all’apparenza irrilevanti.

Il quinto giorno siamo di nuovo a Elgå. Ci abbiamo messo meno del previsto. Siamo riusciti a trovare quello che stavamo cercando. Siamo meno irrequieti e più mindful (consapevoli), anche se per questa parola nutro ancora una certa avversione. Credere di poter mantenere questa sensazione, di poterla portare a casa con noi sarebbe un’illusione. Jan e io lo sappiamo, ma se dovessimo averne bisogno potremmo sempre tornare. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1470 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati