Quando nell’agosto 2021 i taliban hanno preso il controllo dell’Afghanistan, Shukria Sediqi sapeva che i giorni in cui sarebbe stata al sicuro erano contati. Nel suo ruolo di giornalista e attivista per i diritti delle donne, aveva visitato le case che offrivano rifugio alle donne scappate da mariti violenti. Aveva accompagnato quelle donne in tribunale quando avevano chiesto il divorzio. Secondo i taliban, che escludono le donne dalla maggior parte dei luoghi pubblici e dei posti di lavoro e gli impediscono di avere un’istruzione, quel che Sediqi faceva era immorale.

Perciò due anni fa, quando con il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan i taliban hanno fatto irruzione a Herat, la città dov’è nata, Sediqi è fuggita insieme alla famiglia. Prima ha cercato di salire su uno degli ultimi voli americani da Kabul. Poi ha provato ad andare in Tagikistan, ma non aveva i visti necessari. Infine, a ottobre del 2021, dopo aver dormito all’aperto per due notti al posto di blocco per l’ingresso in Pakistan insieme a molti altri afgani è riuscita a passare la frontiera. L’obiettivo era stabilirsi negli Stati Uniti grazie a un programma creato da Washington per aiutare gli afgani che avevano lavorato con il governo, i mezzi d’informazione o le agenzie umanitarie statunitensi e ora, sotto il regime dei taliban, erano in pericolo.

Molti hanno distrutto i documenti durante la presa del potere dei taliban

Due anni dopo, Sediqi e decine di migliaia di persone stanno ancora aspettando di essere trasferite. Solo una minima parte finora ci è riuscita. Molti dei richiedenti asilo in fuga dall’Afghanistan vivono in esilio dando fondo ai loro risparmi. Temono che gli Stati Uniti li abbiano dimenticati. “Che ne sarà di noi?”, chiede Sediqi. “Nessuno lo sa”.

Visti speciali

Dopo l’invasione del 2001, il governo e l’esercito degli Stati Uniti avevano fatto affidamento sull’aiuto di molti afgani. Tanti giornalisti locali hanno lavorato per i mezzi d’informazione statunitensi. Gli afgani, spesso donne attive nelle aree più remote, erano la spina dorsale degli interventi umanitari che offrivano di tutto, dai generi alimentari al sostegno nello studio. Nel 2009 gli Stati Uniti hanno cominciato a rilasciare visti speciali ai collaboratori afgani, per esempio agli interpreti. Nel 2021, poco prima della ritirata frettolosa dal paese, l’amministrazione Biden ha creato due nuovi tipi di visti: il P-1 e il P-2, destinati a operatori umanitari, giornalisti o altre persone che non avevano lavorato direttamente per il governo statunitense ma avevano contribuito a promuovere obiettivi come la democrazia e l’indipendenza dei mezzi d’informazione, e che per questo erano a rischio. I due programmi avrebbero dovuto aiutare persone come Enayatullah Omid e la moglie.

Nel 2011 Omid aveva aperto una stazione radio nella provincia di Baghlan con l’aiuto dell’ente non profit Internews e i fondi dell’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Era il direttore della radio ma faceva di tutto, dai notiziari alle pulizie. La moglie, Homaira Omid Amiri, lavorava con lui ed era un’attivista della provincia. Quando il 9 agosto del 2021 i taliban sono entrati a Baghlan, Omid ha bruciato tutti i documenti per impedirgli di identificare i suoi dipendenti. Poi è scappato con la moglie. Internews ha segnalato Omid al programma statunitense per i rifugiati nella primavera del 2022. A luglio i due sono andati in Pakistan, perché gli era stato detto di lasciare l’Afghanistan se volevano che la loro pratica andasse avanti. Ma Omid non si sentiva al sicuro neppure lì. Temendo di poter essere raggiunto dai taliban, ha traslocato tre volte. In più la polizia pachistana prende di mira gli afgani che hanno i visti scaduti. Mentre lo intervistiamo riceve notizie di retate della polizia e si chiede se parlarne alla moglie, già molto provata. “L’America ha un motto”, osserva: “‘Non lasciare indietro nessuno’. Vorremmo che non fosse solo un modo di dire”.

Il ponte aereo organizzato da Wash­ington nell’agosto del 2021 ha portato al sicuro più di 70mila afgani e decine di migliaia di cittadini stranieri, i fortunati che erano riusciti a farsi strada attraverso la folla intorno all’aeroporto di Kabul. Nella maggior parte dei casi sono entrati negli Stati Uniti con un permesso umanitario. Ma sono circa 150mila le persone che hanno chiesto i visti speciali, senza contare i loro familiari, e stanno ancora aspettando una risposta. Secondo un rapporto di Association of wartime allies, di questo passo ci vorranno 31 anni per esaminare tutte le domande. Stando ai dati del dipartimento di stato, da quando hanno lasciato l’Afghanistan gli Stati Uniti hanno ammesso solo 6.862 profughi afgani nel proprio territorio. In generale, per ottenere asilo negli Stati Uniti possono volerci anche dieci anni, spiega Krish O’Mara Vignarajah, presidente e amministratrice delegata del Lutheran immigration and refugee service. E durante la presidenza di Donald Trump è stato ridotto al minimo il numero di profughi che gli Stati Uniti possono accogliere ogni anno. Per gli immigrati afgani, poi, ci sono difficoltà specifiche: molti hanno distrutto i documenti, nel timore di rappresaglie. Ora ne avrebbero bisogno per la richiesta d’asilo. “Probabilmente dovranno aspettare anni, spesso in condizioni molto precarie”, dice Vignarajah.

In un recente rapporto, l’organismo creato dal congresso statunitense per controllare le spese del governo per la ricostruzione in Afghanistan, ha criticato i vari programmi di ricollocamento. “I ritardi della burocrazia e la carenza di personale hanno indebolito la promessa di protezione tempestiva fatta a queste persone e hanno messo a rischio migliaia di alleati afgani”, si legge nel documento.

Nella confusione che circonda l’intera procedura, per esempio, a Omid e alla moglie è stato detto che avrebbero dovuto lasciare l’Afghanistan per fare richiesta di asilo, così la coppia ha dovuto vendere la sua proprietà, trasferirsi in Pakistan e aspettare. Il Pakistan è uno dei pochi paesi che consente l’ingresso agli afgani ma, una volta arrivati, Omid e la moglie hanno scoperto che lì gli Stati Uniti non esaminavano richieste di asilo (da luglio hanno cominciato a farlo). Almeno fino a luglio. Finora il congresso non ha approvato una legge per migliorare l’assistenza agli afgani che non sono ancora riusciti a raggiungere gli Stati Uniti. Almeno, però. l’amministrazione Biden ha aumentato il numero di profughi accolti nel paese.

Senza molte informazioni, gli afgani in Pakistan condividono su gruppi WhatsApp quello che apprendono dai funzionari incaricati di seguire le loro pratiche e protestano sui social network: “Non mettete di nuovo a rischio le nostre vite”, si legge in un post. Quando i taliban sono tornati al potere e altre 600mila persone si sono riversate in Pakistan, il paese ospitava già milioni di afgani in fuga da decenni di conflitti. Molti sono partiti con documenti di viaggio validi, ma, una volta scaduti, le procedure per rinnovarli sono lente e costose.

Nessuna informazione

Abdul, che non ha voluto rendere noto il cognome perché il suo visto è scaduto, era il responsabile della sicurezza di un’organizzazione umanitaria specializzata in aiuti economici per le donne afgane. I rischi erano enormi: già tre dei suoi colleghi erano stati uccisi. Uno dei suoi ultimi incarichi è stato far arrivare i colleghi stranieri in aeroporto per farli scappare. L’organizzazione è rimasta attiva anche nel 2022, quando i taliban hanno incarcerato Abdul per due settimane.

Dopo il rilascio, un taliban gli ha detto che avrebbe protetto la sua famiglia se gli avesse dato in moglie sua figlia. Era il momento di andarsene. Quella notte Abdul è scappato in Iran con la moglie e i figli. Alla fine del 2022, quando gli è stato comunicato che la loro domanda di accesso a uno dei programmi d’asilo era stata accolta, sono andati in Pakistan. Da allora non hanno più avuto aggiornamenti. I loro visti sono scaduti e sono terrorizzati all’idea di dover lasciare la casa in cui vivono. “Il futuro è nero”, dice Abdul. “Non ho paura di morire. Temo solo per i miei figli”. ◆ gim

Da sapere
La grande fuga

◆ Gli Stati Uniti avevano deciso di ritirare le ultime truppe dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021, vent’anni dopo l’invasione: il piano di esportare la democrazia nel paese asiatico era fallito, e i taliban controllavano ormai quasi la metà del territorio. Tra il maggio e l’agosto del 2021, però, la situazione è precipitata: molti distretti, incluse le principali città, sono caduti nelle mani dei taliban quasi senza che l’esercito opponesse resistenza. Il 15 agosto è capitolata Kabul. Gli statunitensi e gli altri stranieri sono scappati in modo frettoloso e disordinato, mettendo in salvo solo alcuni dei loro collaboratori afgani. Associated Press


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Questo articolo è uscito sul numero 1525 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati