Finora la Biennale di Venezia, sia quella d’arte sia quella di architettura, è stata caratterizzata da un certo eurocentrismo, dettato anche dalla disposizione dei padiglioni nazionali ai Giardini, creati all’inizio del novecento, che riflettono l’ordine globale dell’epoca. Molti altri padiglioni finiscono alle Corderie, una fabbrica del cinquecento situata all’interno dell’Arsenale. Anche per questo l’architettura e gli architetti celebrati negli anni dalla Biennale sono stati soprattutto europei. L’edizione 2023, intitolata The laboratory of the future e curata dalla scrittrice ghanese-scozzese Lesley Lokko, vorrebbe invece dare spazio ai paesi che in passato sono stati poco rappresentati, in particolare (ma non solo) all’Africa e alla diaspora africana. Una possibilità per presentare modi di fare architettura che si allontanano dallo sfruttamento delle risorse e dall’appropriazione della ricchezza altrui.

Decarbonizzare, decolonizzare

Questa ambizione generale comprende la “decarbonizzazione” e la “decolonizzazione”, oltre a tecniche costruttive meno predatorie nei confronti dei popoli e della natura. In alcuni casi l’attività di costruzione è quasi assente.

Lokko, infatti, forza le definizioni di ciò che generalmente si considera architettura, includendo l’arte, le performance, l’attivismo e altri modi di occupare lo spazio fisico alla portata di chi è stato privato del potere e degli strumenti necessari per costruire grandi strutture.

All’ingresso nelle Corderie il visitatore è accolto da un grande schermo in cui il poeta Rhael “LionHeart” Cape proclama che “se l’architettura non è al servizio delle sensazioni, allora è al servizio della psicosi”. Più avanti un film prodotto dallo studio di design londinese Gbolade racconta la popolarità del gioco del domino tra gli immigrati arrivati a Londra dalle colonie britanniche. Il messaggio è chiaro: bastano pochi soldi, infrastrutture minime e una rete di luoghi dove giocare.

Il padiglione danese, Coastal imaginaries. Venezia, maggio 2023 (Simone Padovani, Getty)

I progetti architettonici convenzionali sono sostanzialmente assenti, fatta eccezione per una stanza piena di modellini dello studio di David Adjaye, tra cui quello della futura cattedrale nazionale del Ghana e quello della struttura che dovrebbe ospitare in Nigeria i bronzi del Benin restituiti al paese.

La nuova Biennale pone l’attenzione su progetti che non prevedono pesanti attività di costruzione (come la tessitura o la modellazione della terra) o che riqualificano le strutture esistenti. Una sala particolarmente ricca e interessante illustra le opere degli architetti catalani Flores e Prats, il cui teatro Sala Beckett di Barcellona è la virtuosa rimodellazione di un vecchio edificio. Una delle opere più affascinanti, splendidamente lavorata, è Bengali song, un trittico intessuto in cui è rappresentata una casa a prova di alluvione. Gli autori sono gli artigiani di un collettivo del Bengala e Arinjoy Sen, un architetto nato a Calcutta e residente e Londra.

I padiglioni nazionali, che non sono curati direttamente da Lokko, erano invitati ad affrontare gli stessi temi. Il padiglione dei paesi nordici è occupato da una collezione di artefatti del popolo sámi, assemblati dall’architetto e artista Joar Nango. Nel padiglione britannico, curato da Jayden Ali, Joseph Henry, Meneesha Kellay e Sumitra Upham, è proiettata una serie di filmati che illustrano le vite e i rituali delle minoranze che vivono nel Regno Unito.

Ma non tutto è perfettamente riuscito. In alcune sezioni la Biennale sembra poco profonda e priva di risorse, probabilmente perché le edizioni precedenti erano ricche di progetti creati dai grandi studi, che tendono a portare ulteriori finanziamenti. E come nelle biennali passate, anche in questa molte esposizioni sono difficili da capire. Nelle mostre di questa portata non dovrebbe essere così difficile cogliere il significato delle opere.

Un altro elemento che l’edizione di quest’anno condivide con le precedenti è un’aria di vago ottimismo. Il padiglione lettone, che in realtà è una stanza situata nelle profondità dell’Arsenale, offre un correttivo sagace: un mini market in cui i prodotti sono pacchetti decorati con i buoni propositi delle biennali degli ultimi vent’anni, rimasti sostanzialmente inascoltati. Le scritte proclamano la “necessità di cambiare la nostra percezione della natura e riconoscere che siamo collegati con essa” o illustrano “gli esempi collettivi dell’architettura che crea connessioni e comprensione”. Va bene, ma considerando che il mondo di oggi deve affrontare una serie di emergenze, forse sarebbe meglio presentare proposte che siano meno congetturali.

Non si torna indietro

Alcune delle esposizioni più significative, proprio perché specifiche e concrete, sono anche le più cupe, come nel caso del filmato creato da una squadra guidata dall’architetta Alison Killing (nata a Newcastle upon Tyn, nel Regno Unito, e residente a Rotterdam, nei Paesi Bassi) che documenta le dimensioni e la spietata efficienza dei campi di reclusione per gli uiguri, in Cina. Il fotografo e artista congolese Sammy Baloji denuncia lo sfruttamento dei minerali e dell’agricoltura della sua terra da parte dei belgi, tra le altre cose con uno splendido nuovo modello di ottone e rame di un progetto del 1935 per una mostra che avrebbe dovuto glorificare la colonizzazione. Un monumento all’appropriazione di cui Baloji prende a sua volta possesso, alle sue condizioni.

Le scelte di Lokko hanno cambiato l’inerzia e la direzione seguita dalla Biennale per oltre un secolo, è inevitabile che ci siano alti e bassi. Ma in definitiva la curatrice ha raggiunto il suo obiettivo, ovvero mostrare la visione del mondo di persone che avevano un accesso limitato al prestigio che la Biennale garantisce. Lokko ci fa scoprire realtà che hanno un passato profondo ma a cui finora era stato negato il presente, e che hanno la possibilità di compiere un balzo verso il futuro. Lo spazio più elettrizzante della Biennale, curato dall’artista nigeriano Olalekan Jeyifous, conferisce una forma a questa speranza: è una sala di un immaginario All-African Protoport, circondata da immagini di una vegetazione rigogliosa e macchinari futuristici, un’ipotetica rete di trasporto sostenibile nata dalla collaborazione tra stati decolonizzati. L’idea è che sia un punto di partenza da cui la Biennale e altre istituzioni simili non torneranno indietro. ◆ as

Da sapere
Leone brasiliano

◆ Il Leone d’oro per la partecipazione nazionale alla Biennale architettura 2023 è andato al padiglione brasiliano, Terra, curato da Gabriela de Matos e Paulo Tavares. Il Leone d’oro per il miglior partecipante è andato allo studio Daar di Alessandro Petti e Sandi Hilal. La Biennale si potrà visitare fino al 26 novembre 2023.


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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 75. Compra questo numero | Abbonati