A marzo del 1957 il Ghana si liberò del colonialismo britannico diventando il primo paese dell’Africa sub-sahariana a raggiungere l’indipendenza. Durante i festeggiamenti per quell’evento storico, il nuovo primo ministro Kwame Nkrumah lanciò un messaggio pieno di speranza: “Creeremo la nostra personalità e identità africana. È l’unico modo che abbiamo per dimostrare al mondo che siamo pronti a combattere le nostre battaglie”.

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Questa frase mi è tornata in mente la scorsa settimana, mentre guardavo le prime partite della Coppa d’Africa, un torneo di calcio a cui partecipano 24 paesi di tutto il continente. Quest’anno la competizione è ospitata dal Camerun, è cominciata il 9 gennaio e finirà il 6 febbraio.

La prima volta il torneo si giocò a Khartoum, in Sudan, nel febbraio 1957, poche settimane prima dell’indipendenza del Ghana e alla vigilia di una grande ondata di decolonizzazione. Erano presenti solo tre paesi: Egitto (che vinse), Sudan ed Etiopia. Il Sudafrica fu squalificato perché insisteva nel voler schierare una squadra di soli bianchi.

Un evento globale

Oggi la Coppa d’Africa è il terzo campionato continentale più grande del mondo dopo quello europeo e quello sudamericano. È trasmessa ovunque, attira importanti sponsor e spopola sui social network. E partecipano alcuni dei giocatori più forti a livello internazionale, come l’egiziano Mohamed Salah e i senegalesi Sadio Mané ed Édouard Mendy.

Per me, africano e appassionato di calcio, è entusiasmante vedere queste star – molte delle quali in patria avevano poche opportunità – tornare in Africa a rappresentare i loro paesi.

Moltissimi sono figli d’immigrati in Europa ed è come se per loro giocare nella coppa fosse un modo per onorare i loro genitori e i loro paesi d’origine. Alcune squadre, come l’Algeria e il Marocco, sono composte quasi interamente da figli di emigrati nordafricani in Europa. Altri, come Mané o Salah, tornano nel loro paese per partecipare a partite per cui i benefici economici o professionali sono trascurabili se paragonati a quello che guadagnano giocando nella loro squadra di club. Ma lo fanno comunque. È davvero un atto di solidarietà, in un certo senso il segno di un futuro migliore. Vedo segni dell’Africa immaginata da Nkrumah. Sento che attraverso queste partite è possibile cogliere le tracce di un continente diverso, in cui non ci definiamo in base a quello che sta succedendo in Europa o altrove, ma festeggiamo i nostri traguardi e combattiamo “le nostre battaglie”, come diceva Nkrumah.

La nazionale marocchina a Yaoundé, Camerun, 18 gennaio 2022 (Themba Hadebe, Ap/Lapresse)

I funzionari che gestiscono il torneo hanno trascorsi un po’ meno limpidi in fatto di solidarietà. A volte hanno preso decisioni in linea con la visione di Nkrumah, come quando nel 1957 il Sudafrica dell’apartheid fu squalificato. O quando nel 1996 il Sudafrica appena uscito dall’apartheid ospitò il campionato e la Nigeria fu squalificata perché il suo governo militare aveva impiccato nove attivisti, colpevoli di essersi opposti alle compagnie petrolifere internazionali.

Ma in altri momenti la coppa ha rispecchiato anche i problemi dell’Africa postcoloniale. È stata una costante delusione vedere le nazionali allenate da europei che non trovavano più lavoro in patria. E, con poche eccezioni, i tornei sono ospitati da dittature brutali. Lo stesso Nkrumah incarnava queste contraddizioni. Ha costruito il calcio ghaneano per dare forma al suo sogno, capitalizzando però quel successo quando la sua leadership è diventata via via più autoritaria.

Il paese che quest’anno ospita il torneo rientra nella stessa tendenza. Il dittatore del Camerun da 39 anni è l’ottantottenne Paul Biya, che trascorre lunghi periodi in Europa, in alberghi e in ospedali di lusso, sottoponendosi a cure mediche che la maggior parte dei camerunesi non può nemmeno sognare. E questo mentre nel suo paese cova una guerra civile. La cerimonia inaugurale del campionato si è trasformata in un gigantesco spot elettorale a favore di Biya.

In realtà a dare veramente speranza sono le azioni che si svolgono sul campo. Quel torneo del 1996, senza la Nigeria fu un trionfo per il mio Sudafrica, che riuscì a festeggiare la sua libertà con una straordinaria vittoria. Nel 2012 una sgangherata nazionale zambiana, ricostruita dopo che nel 1993 un incidente aereo aveva provocato la morte di 18 giocatori e dei componenti dello staff, arrivò in finale contro la favorita Costa d’Avorio, ottenendo un’incredibile vittoria arrivata solo dopo i calci di rigore.

Il portiere della Sierra Leone

Anche nel torneo di quest’anno ci sono state partite emozionanti, e belle prestazioni di squadre che rappresentano paesi molto piccoli, tra cui Gambia, Capo Verde e Malawi. Il 18 gennaio la squadra delle Comore, il quarto paese più piccolo dell’Africa, ha battuto il Ghana, che ha vinto la coppa ben quattro volte.

In particolare ha catturato la mia immaginazione la Sierra Leone, finita nello stesso girone delle potenti Algeria e Costa d’Avorio. Nella prima partita del girone, l’11 gennaio, la Sierra Leone ha affrontato l’Algeria, vincitrice della passata edizione, reduce dalla vittoria della Coppa araba a dicembre del 2021. Tra i giocatori algerini c’è Riyad Mahrez, star del Manchester City. La Sierra Leone invece si colloca al 108° posto della classifica stilata dalla Fifa, l’organismo che governa il calcio mondiale, tra Estonia e Corea del Nord. Il suo giocatore più rappresentativo è Kei Kamara, un artigiano di 37 anni che si è fatto un nome in Nordamerica e oggi gioca in Finlandia. Per l’Algeria doveva essere una passeggiata. Invece la Sierra Leone l’ha costretta a un pareggio senza gol. Mohamed Nbalie Kamara, 22 anni, portiere sierraleo­nese che gioca con gli East End Lions di Freetown, la capitale del paese, ha parato tutto. Alla fine è stato nominato miglior giocatore della partita ed è scoppiato in lacrime.

L’emozione di Kamara è comprensibile: è un risultato straordinario per un giovane calciatore sconosciuto. Tuttavia la Coppa d’Africa è importante per tutti, anche per le star che giocano in Europa, e anche per i milioni di tifosi che la guardano in tutto il continente e non solo.

Lo storico britannico Eric Hobsbawn ha scritto: “Le comunità immaginate di milioni di persone sembrano più reali in una squadra in cui ce ne sono undici”. Guardando le partite, giocate da questi migranti prodighi, da star internazionali insieme a giovani di talento, l’immagine che Nkrumah aveva del continente appare reale, o almeno possibile. ◆ gim

Sean Jacobs è il direttore del sito Africa is a country ed è autore di una newsletter sul calcio africano.

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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati