Di tutte le immagini sulle inondazioni in Pakistan che stanno girando sui social network, ce n’è una che sintetizza più di ogni altra le devastazioni provocate: la distruzione del New Honeymoon hotel, l’albergo sulla sponda del fiume Swat a Kalam, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, travolto dalla furia delle acque come un mazzo di carte. Said Nabi, il suo direttore generale di 27 anni, si trovava a meno di cento metri mentre guardava l’edificio sbriciolarsi davanti ai suoi occhi. “È successo il 25 agosto, verso mezzogiorno”, ricorda. “Abbiamo sentito il rumore dei vetri che si rompevano, seguito da un potente boato mentre grandi massi colpivano l’edificio, abbattendolo in parte in un’enorme nuvola di polvere”, racconta. “Migliaia di persone si sono radunate per guardare e fare dei video mentre noi cercavamo di impedirgli di avvicinarsi troppo”.

Per Nabi è stato un déjà vu. Aveva visto le inondazioni spazzare via lo stesso edificio anche nel 2010. “Ma stavolta l’acqua è stata spietata e la sua potenza due volte maggiore”, ha detto. Le inondazioni hanno ucciso più di 1.300 persone e hanno avuto un impatto diretto o indiretto sulla vita di 33 milioni di persone. È in corso una gigantesca operazione di soccorso per fornire viveri, riparo e acqua agli sfollati che hanno cercato rifugio sugli argini dei fiumi e ai lati delle strade. Secondo le stime iniziali del governo, le inondazioni hanno causato perdite per più di dieci miliardi di dollari, pari al 3 per cento del pil del paese. Ma di questi tempi i fondi per i soccorsi scarseggiano.

Su richiesta del primo ministro Shehbaz Sharif, le organizzazioni e le istituzioni finanziarie internazionali hanno promesso 500 milioni di dollari per coprire i costi immediati dei soccorsi e della ricostruzione e l’Onu ha lanciato un appello lampo per la raccolta di 161 milioni di dollari. Descrivendo le inondazioni come una “catastrofe provocata dal cambiamento climatico” e la “sfida più grande da decenni a questa parte”, il responsabile Onu degli aiuti umanitari in Pakistan Julien Harneis ha chiesto “condivisione dei costi e solidarietà” internazionale. “Le inondazioni hanno vanificato decenni di progressi”, ha detto Shafqat Munir, esperto di politiche umanitarie del Sustainable development policy institute, un centro studi di Islamabad. Il “susseguirsi ininterrotto di crisi, come la pandemia, l’aumento del prezzo dei generi alimentari e del carburante, l’inflazione, la contrazione dei redditi e le crescenti diseguaglianze”, hanno messo in ginocchio il paese.

Non si è imparato nulla

Il crollo dell’hotel di Kalam è anche un esempio eclatante di come non si sia imparato niente dopo le violente inondazioni che lo distrussero nel 2010. Nel 2017 il proprietario aveva cominciato a ricostruirlo ancora più grande, con cinque piani e 160 stanze. Quest’anno la struttura era entrata in funzione a pieno regime. “Solo una parte è stata spazzata via, il grosso è al sicuro”, afferma l’albergatore. il proprietario ha dato la colpa di questo “danno parziale” all’amministrazione locale, che aveva brutalmente demolito una porzione dell’albergo dopo aver constatato un abuso, indebolendone così le fondamenta. Ma il proprietario aveva sfidato apertamente la legge del 2002 per la protezione dei fiumi del Khyber Pakhtunkhwa, che proibisce di costruire entro sessanta metri dall’argine di un fiume. “Se era illegale, come sarei riuscito a ottenere l’autorizzazione? E perché nessuno è intervenuto quando sono partiti i lavori?”, replica, rifiutando qualsiasi responsabilità. Come precauzione, spiega di aver costruito un muro di sicurezza per proteggere l’edificio dalle acque del fiume.

Oltre al suo, centinaia di altri alberghi, grandi e piccoli, vecchi e nuovi, così come negozi, bar e ristoranti sono stati travolti dall’acqua. “Dopo la demarcazione delle banchine, chi ha permesso che si ricostruisse di nuovo su quell’area?”, chiede Sobia Kapadia, che aveva contribuito alla ricostruzione degli alloggi nel 2011-2012 e in quel frangente aveva coordinato per l’Onu la valutazione degli aiuti d’emergenza e i danni. “Gli alberghi distrutti nel 2010 sono stati ricostruiti per poi essere di nuovo spazzati via nel 2022, e poi diamo la colpa al cambiamento climatico e allo scioglimento dei ghiacciai!”, dice Kapadia. A suo avviso, “la storia dei disastri, delle crisi e del cambiamento climatico in Pakistan è fatta di una pessima pianificazione, d’infrastrutture inesistenti e dell’incapacità delle istituzioni, a cui si accompagna la carenza di fondi”.

Aftab Rana, presidente della Sustainable tourism foundation Pakistan, protesta a gran voce dal 2002 contro la costruzione di strutture lungo gli argini e nel letto dei fiumi. “Nessuno mi ascolta”, dice sconsolato. È responsabilità del governo promuovere e gestire il turismo in modo adeguato, osserva, e l’amministrazione locale ha chiuso un occhio davanti alle costruzioni abusive. Frequenta le regioni montuose del Pakistan da vent’anni, ma negli ultimi cinque in particolare ha assistito a uno sviluppo indecente, con “grandi macchinari che scavano senza pietà ampi tratti di zone collinari”. “Le foreste sono state sostituite da centri commerciali nelle vallate di Abbotabad, Galliat, Mansehra, Kaghan e Swat, trasformate in giungle di cemento”, spiega. Inoltre il taglio del legname non si ferma, nonostante il governo abbia più volte ripetuto di avere la situazione sotto controllo. “A guardarle dalla strada le foreste sembrano ricoperte di vegetazione, ma se ci si addentra si scopre con sorpresa quanto siano diventate brulle”, dice Rana.

Charsadda, Pakistan, 1 settembre 2022 (Abdul Majeed, Afp/Getty)

“Gli alberi servono a stabilizzare il suolo e a limitare il deposito di sedimenti durante le precipitazioni”, spiega Imran Khalid, esperto di acqua per il Wwf-Pakistan. “Su Twitter ci sono video di persone che recuperano migliaia di enormi tronchi dal fiume in piena e li accatastano lungo la strada. Non sono alberi travolti e abbattuti dall’acqua, ma tronchi potati”, puntualizza Rana.

Secondo lo scienziato Fahad Saeed, con il termometro che segna temperature di 1,2 gradi centigradi in più rispetto all’era preindustriale il Pakistan dovrà affrontare eventi atmosferici ancora più intensi. “Anche un innalzamento di un decimo di grado della temperatura dovrebbe allarmarci, perché il sistema terrestre è molto delicato e il minimo disturbo può alterare l’equilibrio”, afferma Saeed, che dirige la Weather and climate service, una società di consulenza nel campo delle politiche legate al cambiamento climatico con sede a Islamabad. In alcuni posti però, osserva Khalid del Wwf, l’aumento potrebbe essere superiore a 1,2 gradi, con un impatto sul ciclo idrogeologico terrestre. L’esempio sono le intense piogge monsoniche nel Sindh, legate al riscaldamento degli oceani.

Lo sviluppo sregolato non è però limitato alla sola regione dello Swat. Khalid racconta che nelle città di Dera Ghazi Khan e Dera Ismail Khan le comunità hanno costruito insediamenti in prossimità delle aree di drenaggio dei torrenti collinari. “Questo non solo provoca danni alle abitazioni, ma restringe il flusso dell’acqua, mettendo a rischio altre infrastrutture come autostrade e canali”.

Da sapere
Le preghiere non bastano

Più di 1.300 persone sono morte finora per le alluvioni in Pakistan dovute alle piogge eccezionali che cadono da giugno nel paese. Un terzo del territorio è sommerso e 33 milioni di persone sono state colpite dalla peggior catastrofe della storia del Pakistan. La provincia meridionale del Sindh­ ha subìto i danni più gravi. Il 4 settembre le autorità hanno sfondato gli argini del lago Manchar, il più grande del paese, che stava raggiungendo un livello preoccupante, e ordinato lo sgombero di centomila persone che vivevano vicino alla riva. Non è chiaro quante abbiano seguito l’ordine di lasciare le case. Alcune hanno parlato di rifugi sovraffollati, mentre altre non volevano lasciare i loro averi, scrive il Guardian. L’Organizzazione mondiale della sanità ha avvertito che la situazione nel paese peggiorerà. Più di 1.460 centri sanitari sono stati danneggiati e di questi 432, la maggior parte nel Sin­dh, quasi completamente distrutti. Sono stati allestiti 4.500 campi medici, dove si effettuano test per malattie come diarrea acuta, malaria, dengue, epatite e chikungunya, già presenti nel paese insieme al covid-19, all’hiv e al virus della poliomielite. “Le infrastrutture sanitarie erano già inadeguate in molti centri urbani, e nelle zone rurali in generale insufficienti o assenti”, spiega Dawn. “È un’equazione estremamente ingiusta: anche se il Pakistan è responsabile solo per una piccola frazione delle emissioni storiche di CO2, è tra i paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento”, scrive il quotidiano in un editoriale in cui chiede ai paesi industrializzati di prendersi le responsabilità per una catastrofe frutto anche dalle conseguenze delle loro “attività predatorie”. I “pensieri e le preghiere” dei leader internazionali non bastano, così come gli aiuti mandati o promessi finora, continua Dawn. “I paesi più vulnerabili non devono essere lasciati soli a sostenere il costo della crisi climatica”. ◆


Coinvolgere gli esperti

Con l’accordo di Parigi sul clima del 2015, i paesi di tutto il mondo hanno concordato di mantenere l’aumento medio globale della temperatura sotto i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, ponendosi l’obiettivo di non andare oltre gli 1,5 gradi. Secondo Saeed, in vista della conferenza Cop27 che si terrà a novembre a Sharm el Sheikh, in Egitto, sarebbe necessario sostenere la causa del Pakistan e “collegare su basi scientifiche le calamità di quest’anno – prima l’ondata di calore e poi le alluvioni – al cambiamento climatico, per poter accedere agli aiuti finanziari internazionali sul clima”. Anche se per farlo non “serve essere Einstein”, data la disponibilità di metodi e ricerche, a suo avviso manca la “volontà di fare ordine in casa propria”. “Il governo non ha mai ritenuto importante coinvolgere il mondo della ricerca o le istituzioni accademiche. Ci sono persone che, quando lasciano il paese e lavoranoall’estero, ottengono risultati eccezionali”, afferma lo scienziato del clima, che aggiunge: “Non dateci soldi se non potete. A molti di noi basta un po’ di rispetto e riconoscimento!”.

Da sapere
Poco ambientalismo

◆ “Le alluvioni in Pakistan mettono in luce i gravi rischi della crisi climatica nell’Asia meridionale, quindi come mai nella regione ci sono così pochi partiti verdi?”, si chiede The Diplomat. Mentre in Australia il clima è stato il tema più importante per il 29 per cento dei votanti alle ultime elezioni e in Europa i partiti ambientalisti crescono, nell’Asia del sud l’ambiente non è mai al centro della politica. L’indice di rischio climatico globale mostra che l’India e l’Afghanistan sono tra i dieci paesi più colpiti dai cambiamenti climatici nel 2021, mentre Pakistan, Nepal, Birmania e Bangladesh sono tra i primi dieci paesi colpiti dal 2000 a oggi. Inoltre in Asia povertà e sovrappopolazione peggiorano i disastri causati dalla crisi climatica.


Ma l’ultima alluvione può davvero essere attribuita al cambiamento climatico? “Senza dubbio”, dice Amiera Sawas, direttore dei programmi e della ricerca di Climate outreach, con sede nel Regno Unito, impegnato sul campo dopo le inondazioni del 2010, che provocarono venti milioni di sfollati. Secondo Khalid, il riscaldamento sta accelerando molto lo scioglimento dei ghiacciai. “Il fatto che le alluvioni abbiano causato un disastro di questa portata è dovuto a una pessima pianificazione, a un governo debole, alla mancanza d’investimenti e all’assenza di sistemi adeguati di allerta precoce e di protezione sociale. Molti di noi avevano avvertito i vari governi che si sono susseguiti, chiedendo maggiori investimenti per rendere gli edifici più resistenti”. Khalid è d’accordo. “Le alluvioni fanno parte del Pakistan”, aggiunge, “ma danni e distruzione possono essere limitati migliorando la gestione del territorio”. Se c’è una lezione da imparare ora, commenta, è “che bisogna impegnarsi con idrologi, geo­grafi e altri specialisti di risorse naturali per individuare i complessi edilizi, in regola o abusivi, che intralciano il drenaggio e il flusso naturale delle acque”.

È anche ora di riconsiderare “il rapporto critico tra l’urbanistica regionale, l’uso dei territori, la progettazione architettonica e l’ecologia, la vulnerabilità, la sensibilità al cambiamento climatico, una gestione corretta degli spazi, senza tralasciare la sproporzione nella distribuzione delle risorse”, aggiunge Kapadia. A suo avviso, l’“incapacità delle istituzioni e la semplice mancanza di volontà politica” e oggi sono sfociati nel caos. Purtroppo, continua, con la ricostruzione del 2010 erano stati forniti al distretto dei piani di gestione dei disastri che sarebbero dovuti ricadere nella pianificazione quinquennale della provincia. “Per i primi tre anni queste cellule di gestione dei disastri sono state finanziate dall’Onu, poi sono state trasferite all’autorità provinciale, che dipende da quella nazionale. Bisogna indagare su cosa sia successo a quei piani, a quelle risorse e a quei sistemi”. ◆ gim

L’articolo originale è uscito su Prism, Dawn.

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Questo articolo è uscito sul numero 1477 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati