11 giugno 2015 16:15
La capsula Soyuz Tma-14m in fase di atterraggio, a Jezqazğan, in Kazakistan. Nella capsula viaggiavano i due cosmonauti russi Alexander Samokutjaev e Elena Serova e l’astronauta statunitense Barry Wilmore della Nasa che hanno passato quasi sei mesi in orbita. (Bill Ingalls, Afp)

Dopo duecento giorni sulla Stazione spaziale internazionale (Iss), per l’italiana Samantha Cristoforetti, il russo Anton Shkaplerov e lo statunitense Terry W. Virts, sono tornati sulla Terra. La missione spaziale che è conclusa oggi era cominciata lo scorso 23 novembre da Baikonur, nel mezzo delle steppe del Kazakistan, ed è lì che i tre astronauti sono atterrati l’11 giugno, alle ore 15.43 (ora italiana). Il viaggio a bordo della Soyuz, la capsula che ha riportato a casa l’equipaggio, dura 3 ore e 30 minuti. Ma come avviene esattamente il ritorno sulla Terra dopo mesi vissuti in assenza di gravità?

Il distacco della capsula dalla stazione spaziale. Le operazioni cominciano molto tempo prima: sia gli astronauti che si trovano nello spazio, sia i controllori di volo che seguono il viaggio dalla Terra, leggono e rileggono meticolosamente tutte le procedure. L’equipaggio, anche se c’è un sistema di controllo automatico, dispone di un controllo manuale per le emergenze. Gli astronauti preparano gli oggetti da portare con sé e comincia l’undocking, il distacco dalla stazione spaziale della Soyuz, la navicella a bordo della quale viaggeranno i tre membri dell’equipaggio.

Soyuz entra in orbita. Chi parte saluta chi resta a bordo e viene chiuso il portellone che collega la Stazione spaziale al modulo orbitale. I tre astronauti indossano le tute e passano nel modulo di discesa: è pronto per il distacco. Vengono aperti i ganci di attracco e dopo 3-4 minuti il modulo e la stazione non sono più fisicamente collegati. A questo punto entra in azione un set di molle che allontana lentamente la soyuz dall’Iss alla velocità di 12-15 centimetri al secondo. L’equipaggio può controllare le operazioni di distacco tramite una videocamera esterna. Dopo tre minuti la Soyuz accende i motori. L’equipaggio, che è in costante comunicazione con la Terra, si prepara a questo punto alla fase di de-orbit burn, che consiste nel rallentamento della capsula per cambiare la traiettoria e farla rientrare nell’atmosfera terrestre. La navicella che viaggia alla velocità di quasi 30mila chilometri all’ora, è frenata, oltre che dalla stessa atmosfera, dal motore principale collocato nella parte posteriore e che spinge in direzione contraria rispetto al senso di marcia. In questa fase del viaggio la Soyuz attraversa gli strati più densi dell’atmosfera: mancano 55 minuti all’atterraggio.

La distruzione di due parti della capsula. A trenta minuti dall’atterraggio, a un’altitudine di 140 chilometri, la navicella si separa in tre parti: il modulo orbitale, il modulo di rientro e il comparto strumenti. Rientra sulla Terra solo la capsula che trasporta l’equipaggio, mentre gli altri due si disintegrano, disperdendosi nell’atmosfera. Chi ha provato quest’esperienza ha raccontato che all’interno della navicella si ha la percezione che ci sia qualcuno con un martello che colpisce le pareti con violenza. Il modulo di rientro raggiunge temperature elevatissime ed è per questo protetta da uno scudo termico. La capsula entra nel plasma, la parte più densa dell’atmosfera. Il plasma è rosso ed è visibile dagli oblò. Questa è la fase più difficile di tutta l’operazione.

Il ritorno in gravità. È a questo punto che gli astronauti cominciano a sentire gradualmente la forza di gravità che permette loro di sedersi sui sedili e allacciare le cinture. Il modulo in caduta libera a quel punto si comporta come un surfista che cavalca l’onda, ruotando su se stessa nei due sensi, per cambiare il suo assetto e mantenere la traiettoria giusta. Gli astronauti che sono stati sulla stazione raccontano che non ci si rende conto di cosa sia la forza di gravità, se non dopo aver vissuto per mesi a gravità zero: all’improvviso senti le mani pesanti e “l’orologio ti pesa un quintale”, racconta chi è tornato dalla missione sulla Stazione spaziale.

Si apre il paracadute. Quando la capsula raggiunge la quota di 10,5 chilometri, la sua velocità è già diminuita da 28mila chilometri orari a 800 chilometri orari. A questo punto entra in gioco il grande paracadute, per rallentare ulteriormente la capsula. In questa fase gli astronauti riescono a sentire il vento terrestre, che a questa altezza è sempre presente.

La capsula si avvicina al suolo e rallenta. A 8,5 chilometri di altezza da Terra la navicella viaggia a 22 chilometri orari e la capsula comincia a dissipare il calore accumulato lungo il tragitto. È solo a questo punto che il viaggio diventa più “tranquillo”, e che l’equipaggio capisce di essere finalmente in salvo. All’altitudine di 5,5 chilometri lo scudo termico viene espulso insieme al carburante e all’ossigeno in eccesso, per evitare il rischio di esplosione al momento dell’impatto col suolo e la capsula assume la posizione migliore per atterrare. La squadra di recupero, con elicotteri e aerei, individua il punto esatto in cui la capsula atterrerà. I razzi che erano posizionati dietro lo scudo termico ormai espulso, sono pronti per entrare in funzione, riducendo ulteriormente la velocità a 5,5 chilometri orari.

L’atterraggio “morbido”. La Soyuz a questo punto tocca finalmente terra, con un atterraggio “morbido”, che in realtà è più similea uno “scontro frontale di una piccola auto e un camion”. Ma non è ancora finita: il paracadute deve essere espulso, per evitare che i venti della steppa gonfino il dispositivo e trascinino via la capsula. Gli astronauti, appena usciti dalla navicella ancora non riescono a camminare, vengono recuperati e trasportati fuori dalla squadra di recupero. Avranno bisogno di riabilitazione e controlli medici, ma possono finalmente respirare l’aria fresca e godersi il loro rientro sulla Terra dopo aver vissuto duecento giorni tra le stelle.

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