07 luglio 2020 16:08

In un pomeriggio di inizio giugno Sajad Ahmad Beigh, 23 anni, proveniente dal distretto di Shopian, nel Kashmir del sud, è uscito di casa con un gregge di pecore, diretto verso un bosco poco distante. Non ha mai fatto ritorno. Una settimana dopo suo fratello Khurshed Ahmad è stato informato da alcuni ufficiali dell’esercito indiano che Sajad era stato ucciso in uno scontro a fuoco nel villaggio di Sugg, a quattro chilometri di distanza dalla sua abitazione.

“Era molto giovane. Non avevamo idea di cosa gli fosse capitato”, ha raccontato Khursheed. “Non ne parlavamo, perché non sapevamo niente. Il giorno in cui è stato ucciso, alle nove e mezza di sera, ci hanno chiesto di identificare il suo corpo”.

Da gennaio l’offensiva lanciata dalle forze indiane in Kashmir ha provocato la morte di almeno 116 ribelli, assestando un duro colpo alla rivolta armata contro il governo indiano in corso ormai da trent’anni. La vita da rivoltoso di Sajad è durata appena sette giorni. Come lui, altri combattenti uccisi negli ultimi mesi erano nuove reclute. Nella città di Srinagar, un ribelle ucciso questo mese aveva imbracciato il fucile poche settimane prima. Un altro ragazzo, che avrebbe dovuto svolgere un dottorato in amministrazione d’impresa presso un’università locale, è scomparso durante un viaggio. Si pensa che si sia unito ai ribelli.

Il capo della polizia del Kashmir Dilbagh Singh ha dichiarato che “nelle ultime due settimane di giugno sono stati uccisi 22 terroristi”. Dall’inizio dell’anno i decessi sono stati più di cento.

A Srinagar, città dove si è verificata la maggior parte dei conflitti a fuoco, negli ultimi due mesi sono stati uccisi cinque ribelli nell’ambito di due operazioni miliari. Tra le vittime ci sono anche tre civili, che secondo le famiglie sarebbero stati uccisi dallo scoppio improvviso di un “ordigno inesploso”. Uno di loro, Basim Aijaz, aveva dodici anni. Il 1 luglio, l’uccisione di un civile di 65 anni ha scatenato la rabbia popolare dopo la pubblicazione di una foto che mostrava il nipote di tre anni seduto sul suo cadavere.

Le forze di sicurezza indiane hanno promesso di eliminare la rivolta armata dalla regione. Tuttavia molti giovani, tra cui Sajad, continuano ad arruolarsi nel movimento lasciandosi alle spalle famiglie “sconvolte e confuse”.

Secondo i dati ufficiali, nel 2019 hanno aderito alla rivolta armata 139 ragazzi.

I dati dimostrano che la situazione della sicurezza in Kashmir è progressivamente peggiorata dall’arrivo al potere del primo ministro Narendra Modi, nel 2014. Questo solleva pesanti interrogativi sulla linea dura adottata dal governo a proposito del Kashmir.

Tutela cancellata
Nell’agosto 2019 l’India ha abrogato l’articolo 370 della costituzione, in vigore da settant’anni per garantire una autonomia limitata alla regione contesa, dove vivono circa dodici milioni di persone. Il governo nazionalista indù di New Delhi ha inviato migliaia di nuovi soldati in una regione tra le più militarizzate al mondo e che secondo le stime ospitava già più di mezzo milione di militari indiani.

La maggior parte dei leader indipendentisti, oltre a un gran numero di leader filoindiani, tra cui l’ex prima ministra del Kashmir Mehbooba Mufti, sono in prigione dall’anno scorso, quando il governo indiano ha deciso di privare la regione del suo statuto speciale e imporre una stretta militare e sulle comunicazioni. Il blocco di internet è stato cancellato nel febbraio 2020, ma il Kashmir è ancora senza una connessione ad alta velocità. Il governo ha difeso la sua decisione sostenendo che la rete potrebbe essere usata per organizzare proteste contro le autorità. La scelta di New Delhi di sciogliere il parlamento locale ha suscitato l’opposizione di diversi politici precedentemente leali al governo indiano.

“In questo momento, nel Jammu e Kashmir, il processo politico e le istituzioni sono sospesi. La popolazione non partecipa al processo decisionale, che è alla base delle società democratiche”, osserva Zafar Choudhary, analista politico che vive nel Jammu e dirige il sito The Dispatch. Secondo il giornalista, il governo di New Delhi ha introdotto con la forza “cambiamenti costituzionali senza precedenti” in una regione segnata dal vuoto politico. “Nuove decisioni politiche dalle enormi ripercussioni, come la legge sul domicilio, continuano a cogliere di sorpresa la popolazione”.

La politica adottata da New Delhi per assimilare il Kashmir al resto dell’India approfondisce il senso di alienazione degli abitanti

Gli abitanti del Kashmir temono che la legge in questione si riveli uno strumento per provocare un cambiamento demografico nell’unica regione indiana a maggioranza musulmana. In precedenza la legge aveva impedito ad abitanti “esterni” di acquistare terre e stabilirsi in Kashmir, ma alla fine di giugno 25mila persone provenienti da altre aree del paese hanno ottenuto un permesso di residenza nella regione contesa, rivendicata anche dal Pakistan.

Choudhary sostiene che la politica adottata da New Delhi per assimilare il Kashmir al resto dell’India in realtà sta avendo l’effetto opposto. “Approfondisce e aumenta il senso di alienazione”. Il blocco imposto l’anno scorso ha danneggiato profondamente l’esportazione del principale prodotto della regione, la mela. Quest’anno la speranza di una ripresa dell’attività economica è stata cancellata dalle limitazioni legate al covid-19, e mentre la regione affronta la pandemia, l’offensiva militare è andata avanti.

Nessun funerale per i ribelli
I ribelli godono del sostegno della popolazione. Quelli uccisi negli scontri a fuoco sono considerati martiri, e ai loro funerali partecipano centinaia di persone. Quattro anni fa l’assassinio del comandante Burhan Wani, nella regione meridionale del Tral, aveva scatenato una protesta diffusa. Ai funerali erano presenti decine di migliaia di persone.

Oggi le autorità indiane sequestrano i cadaveri dei ribelli e li trasportano in località remote, dove li seppelliscono lontano da occhi indiscreti. “Abbiamo visto la sua faccia solo per un attimo. Non ci hanno permesso di piangere né di toccarlo, e nemmeno di scattare un’ultima foto del suo corpo. Ci hanno ordinato di consegnare i nostri telefoni prima del funerale”, ha raccontato la sorella minore di Sajad, Shahida, studente universitaria. “Nessuno vuole ascoltarci, ma avere il corpo è un nostro diritto”.

Shahida ha raccontato che il telefono cellulare di Sjad era stato sequestrato dall’esercito mentre il ragazzo pascolava il bestiame poco lontano da casa. “L’esercito gli aveva detto di andare a ritirarlo. Quando si è recato nella caserma l’hanno picchiato e torturato. Non riusciva a camminare, gli facevano troppo male i fianchi. Poi gli hanno detto di nuovo di andare a prendere il telefono, ma non è andato perché aveva paura. Il telefono ce l’hanno ancora loro”.

L’ispettore della polizia Vijay Kumar ha dichiarato che le autorità non consegnano i corpi dei “militanti alle famiglie e non consentono la loro sepoltura nei luoghi dove sono nati. In questo modo proteggiamo le persone dal covid-19 e fermiamo la glorificazione dei militanti durante i funerali”, ha precisato.

Nel vicino villaggio di Baghandar, Sahil Ahmad Malik, 25 anni, ha vissuto con la famiglia fino a quando è andato via di casa, nell’agosto del 2018, per unirsi ai ribelli. I familiari hanno riferito che il ragazzo non è mai andato a trovarli né li ha contattati durante il periodo di due anni trascorso con i ribelli. Malik è stato ucciso insieme a Sajad, nella roccaforte ribelle del Kashmir meridionale, ma la famiglia non ha visto il suo cadavere e non è stata informata finché il ragazzo è stato seppellito nel villaggio di Sheeri, a 120 chilometri da Shopian.

La madre di Malik, Habla Begum, di 50 anni, dice che i familiari sono stati perseguitati dalle forze di sicurezza per due anni quando il ragazzo militava tra i ribelli. “Ogni giorno perquisivano casa nostra. Durante quei mesi siamo stati costantemente in ansia. Non mi hanno fatto vedere il suo cadavere. Un giorno abbiamo saputo che era morto”, racconta nella sua casa di Baghandar. “Hanno picchiato il fratello minore di Malik, che ha 18 anni. Non riesco nemmeno a descrivere le persecuzioni che abbiamo subìto per 23 mesi. Una volta i soldati mi hanno costretta a restare a piedi nudi nella neve per tutta la notte. Un’altra volta hanno tenuto una torcia puntata sui miei occhi per una notte intera. Volevano punirci”, racconta. “Ci ordinavano di dire a Malik di arrendersi, volevano che lo consegnassimo, ma noi non avevamo nessuna informazione su di lui. Ho continuato a ricordare a quegli ufficiali che anche loro avevano madri come me. Ci sentivamo soffocati”.

Calo considerevole
Riguardo alle accuse di tortura da parte delle forze di sicurezza, l’ispettore della polizia Kumar ha dichiarato che non esistono denunce ufficiali. “Sui social network abbiamo letto lamentele e accuse di persecuzione, ma nessun parente ha sporto denuncia. Stiamo ancora indagando”. Secondo Kumar i ribelli attivi sono tra i 165 e i 180. Si tratta di un calo considerevole rispetto all’inizio degli anni novanta, quando i combattenti armati erano migliaia. I numeri si sono ridotti drasticamente all’inizio del nuovo millennio, ma da allora le manifestazioni di piazza sono diventate più frequenti.

Le forze di sicurezza indiane sono state accusate di aver usato la forza in modo sproporzionato nei confronti dei manifestanti (compresi quelli che lanciavano pietre) accecandone migliaia con i proiettili non letali.

Ajai Sahni, esperto di sicurezza e direttore esecutivo dell’Istituto per la gestione dei conflitti di New Delhi, è convinto che i ribelli andranno avanti nonostante i numeri ridotti e le risorse limitate. “Non prevedo alcun mutamento sostanziale del loro percorso”, spiega. “Sono sceso da diverse migliaia a poche centinaia di effettivi. Ma si tratta di un tipo di rivolta che è possibile mantenere su questi livelli per molto tempo, anche perché ricevono aiuti dal Pakistan”, sottolinea Sahni riferendosi alle accuse di New Delhi su un presunto sostegno di Islamabad ai ribelli. Il Pakistan ha negato di aver armato i militanti. Tuttavia Sahni osserva che “non ci sono stati sforzi” per risolvere politicamente il conflitto in Kashmir, nemmeno all’inizio degli anni duemila, con il declino dei decessi e dell’attività dei ribelli.

L’uccisione del comandante Wani quattro anni fa ha spinto un numero crescente di giovani del Kashmir a entrare nelle forze ribelli dopo aver perso la fiducia in una soluzione politica.

Negli ultimi anni è svanita anche la calma al confine de facto tra India e Pakistan. I bombardamenti attraverso la frontiera, dopo un calo consistente, sono aumentati vertiginosamente quando New Delhi ha cambiato la sua politica sul Kashmir, su iniziativa di Modi. Nel 2014 erano state registrate 547 violazioni del cessate il fuoco. Nel 2019 sono state 3.479.

Secondo i dati ufficiali indiani negli ultimi anni non c’è stato alcun aumento nel numero di scontri violenti con la morte di ribelli, civili e personale delle forze di sicurezza indiane. Il 1 luglio un’organizzazione per la difesa dei diritti attiva in Kashmir ha dichiarato che almeno 229 persone sono state uccise nei primi sei mesi dell’anno. Il rapporto della Coalizione per la società civile del Jammu e del Kashmir sostiene che 32 vittime fossero civili.

Oggi gli abitanti della regione sembrano condannati a pagare il prezzo della violenza e dell’emarginazione politica ed economica, almeno fino a quando, come sottolinea Sahni, New Delhi “non cambierà la sua agenda politica”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato da Al Jazeera.

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