07 ottobre 2016 15:12

Lo scopo di avere un assistente digitale è fargli fare le cose al posto tuo. Ma continuo ad avvertire qualcosa di strano nel tono di chi si rivolge a Echo, il cilindro di Amazon che si attiva con la voce e ti fa ascoltare la musica, legge i titoli dei giornali per te, aggiunge articoli al tuo carrello su Amazon e porta a termine altri compiti. Per attivarlo basta dire “Alexa”. Per esempio: “Alexa, metti un po’ di musica rock”.

Il comando per attivare Cortana, l’assistente di Microsoft, è simile – “Ehi, Cortana” – ma un po’ più gentile. Siri di Apple può essere attivata con un “Ehi” o premendo un pulsante.

Ma se in futuro daremo con nonchalance ordini alle macchine che ci circondano, perché molte devono avere nomi femminili? La spiegazione più semplice è che le persone si aspettano che le donne occupino un ruolo organizzativo, e chi progetta gli assistenti digitali è influenzato da queste aspettative sociali. Ma c’è di più.

L’ingegnere informatico Dag Kittlaus, che ha contribuito alla creazione di Siri, ha raccontato che il nome significa “donna che porta alla vittoria”. Cortana fa riferimento a un personaggio nudo del videogame Halo. Alexa è l’abbreviazione di Alexandria, ed è un omaggio all’antica biblioteca (ok, ma perché non hanno scelto Alex?). L’assistente digitale di Google, che si attiva dicendo “Ok Google”, non ha né un nome di donna né un nome umano, ma ha una voce femminile.

Amy Ingram è un’assistente virtuale che fissa al posto nostro gli appuntamenti per email firmandosi A.I., intelligenza artificiale

Dennis Mortensen è tra i fondatori dell’azienda x.ai, che propone un assistente digitale a cui si possono mandare email per fissare appuntamenti. Secondo lui, presto le app e i servizi web saranno sostituiti dall’intelligenza artificiale. “Mentre cominciamo a vedere questi assistenti intelligenti”, mi ha detto Mortensen, “la prima domanda che dobbiamo farci è: li vogliamo umanizzare? Se la risposta è no, li chiamiamo Google Now. Altrimenti si pone il dilemma… come lo chiamo?”.

L’azienda di Mortensen ha scelto Amy Ingram, e poi ha aggiunto Andrew Ingram, permettendo alle persone di scegliere il nome che preferiscono. Aggiungere il cognome è un modo per dare all’assistente le iniziali A.I. (intelligenza artificiale) e per rendere più umane le email spedite dall’assistente.

Mortensen non crede però che la tendenza a dare agli assistenti digitali dei nomi di donna rifletta per forza la questione dei ruoli di genere nel mondo reale. “Per difendere un po’ i miei colleghi tecnologi, alcune ricerche hanno evidenziato che le persone reagiscono meglio a ordini presi da una voce femminile”.

Nel 1980, per esempio, il dipartimento dei trasporti degli Stati Uniti riferì che diversi studi condotti sui piloti di aereo indicavano una “forte preferenza” per sistemi di allerta automatica che avevano voci femminili, sebbene i dati dimostrassero che non c’era differenza nel modo in cui i piloti reagivano alle voci maschili o femminili.

Tornando agli assistenti digitali, c’è anche M di Facebook, che sta per Messenger. M non sarà specifico sotto il profilo del genere, ma il New York Times ne parla al femminile. Forse perché M in realtà è una donna, una donna vera. Quando il giornalista del Times Brian X Chen ha chiesto a M di fissare un servizio fotografico nello studio di un amico, l’amico ha detto a Chen che a chiamarlo da Facebook era stata una donna.

Chen l’ha definita “un’assistente non troppo virtuale”. Quindi un’assistente. E anche se potrebbe non essere una macchina, a quanto pare è molto efficiente.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su The Atlantic. È uscito anche su Internazionale il 30 settembre 2016 a pagina 116 con il titolo “Alex, metti un po’ di musica”. Compra questo numero | Abbonati

This article was originally published on Theatlantic.com. Click here to view the original. © 2016. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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