Una parte della risposta ha a che fare con le conseguenze della sconfitta del 5 novembre e con le scelte politiche e ideologiche che farà il Partito democratico per tornare a governare. Un’altra riguarda il modo in cui i democratici cercheranno di limitare o bloccare le iniziative di Donald Trump nei prossimi quattro anni.
Il secondo livello, quello “dell’opposizione”, sta già cominciando a delinearsi in queste settimane che precedono l’insediamento di Trump, e qualche previsione possiamo farla guardando come si sono mossi i leader democratici durante il suo primo mandato. Oggi come allora i repubblicani controllano sia la camera dei rappresentanti sia il senato, quindi non c’è molto che i democratici nel congresso possano fare per ostacolare i progetti dei repubblicani e dell’amministrazione Trump, se non tendendo qualche trappola alla camera (dove il partito del presidente ha una maggioranza risicata) o facendo ostruzionismo in senato.
L’opposizione a Trump quindi si organizzerà soprattutto lontano da Washington, e sarà guidata da quegli stati che pensano di avere di più da perdere, a cominciare dalla California. Gavin Newsom, il governatore dello stato, si è precipitato da Biden pochi giorni dopo le elezioni per chiedergli di proteggere preventivamente la sua agenda politica dai probabili attacchi di Trump.
La California e il nuovo presidente sono in rotta di collisione su tante questioni, la prima tra tutte riguarda le leggi per contrastare la crisi climatica e per proteggere l’ambiente. In questi anni Newsom è stato uno dei governatori più impegnati su questo fronte, e ora ha ottimi motivi per temere ritorsioni. Il 13 settembre, durante la campagna elettorale, Trump aveva detto che una volta alla Casa Bianca potrebbe decidere di bloccare i fondi federali destinati alla California per i disastri naturali, per esempio quelli per spegnere gli incendi, se il governatore non accetterà di dare più acqua agli agricoltori dello stato, una questione che da tempo divide gli ambientalisti e i proprietari terrieri della California. Newsom si sta anche preparando alla possibilità che l’amministrazione Trump elimini gli incentivi voluti da Biden per favorire l’acquisto di auto elettriche.
Newsom non è l’unico governatore democratico che si sta dando da fare. J.B. Pritzker (Illinois) e Jared Polis (Colorado) hanno creato una coalizione, chiamata Governatori per la salvaguardia della democrazia, che dovrebbe fronteggiare i “pericoli dell’autoritarismo e dell’indebolimento delle istituzioni democratiche”. Non è chiaro che cosa farà concretamente l’organizzazione, come sarà finanziata e quanti altri governatori democratici decideranno di entrarci (alcuni non pensano che sia una buona idea mettersi subito sul piede di guerra e credono che si debba almeno provare a collaborare con l’amministrazione Trump). Non c’è dubbio comunque che Pritzker e Polis, come Newsom, cercano di costruire una piattaforma per farsi rappresentanti di una fetta del mondo democratico e per farsi conoscere a livello nazionale. Questo è uno degli elementi da osservare nei prossimi mesi: come verrà riempito il vuoto di leadership causato dall’uscita di scena di Biden e dalla fine delle ambizioni presidenziali di Harris.
Un’altra questione delicata riguarda l’immigrazione, con Trump che pretenderà collaborazione da tutte le amministrazioni locali e statali al suo grande piano di espulsione di immigrati irregolari. Anche in questo caso, il presidente eletto ha minacciato di bloccare i fondi federali alle forze dell’ordine nelle giurisdizioni che si rifiutano di applicare gli ordini della Casa Bianca. Poi c’è il diritto all’aborto. In campagna elettorale Trump ha promesso che non cederà alle pressioni degli ultraconservatori che gli chiedono di sostenere un divieto nazionale all’interruzione di gravidanza, ma la sua vittoria darà forza agli attivisti antiabortisti in tutto il paese, e gli stati governati dai democratici risponderanno facilitando ulteriormente l’accesso all’aborto, anche per le donne che arrivano da stati dove la procedura è vietata.
I precedenti ci dicono che molti di questi conflitti, soprattutto quelli sull’immigrazione e sulle norme ambientali, arriveranno nei tribunali. Secondo i dati raccolti da Paul Nolette della Marquette university, citati dall’Economist, contro la prima amministrazione Trump furono intentate più cause “multistatali” (quelle in cui più di uno stato si costituisce parte civile) rispetto a qualsiasi altra amministrazione dagli anni ottanta in poi. Il governo federale è stato citato in giudizio il doppio delle volte durante il primo mandato di Trump rispetto ai due di Barack Obama. La California e New York, i due stati democratici più popolosi, sono stati i capofila di questa “resistenza”.
La strategia ha funzionato, visto che l’83 per cento delle cause hanno avuto successo. Ma oggi il quadro sembra diverso. All’epoca i tribunali tendevano a dare torto all’amministrazione Trump perché i provvedimenti contestati erano molto poco solidi a livello giuridico, spesso scritti da persone che non avevano idea di come si costruisse un decreto presidenziale; possiamo immaginare che stavolta la Casa Bianca si comporti in modo un po’ più organizzato e razionale. Inoltre in quegli anni Trump ha nominato decine di giudici in tutto il paese che hanno trasformato il sistema giudiziario federale, compresa la corte suprema, in senso conservatore.
Quest’opposizione comporta dei rischi per il Partito democratico. In California, in Illinois, New York e in altri stati tendenzialmente progressisti sta crescendo da anni il malcontento verso le amministrazioni statali e locali a lungo dominate dai democratici – cosa che contribuisce a spiegare la crescita dei consensi dei repubblicani in quelle zone del paese – e un conflitto permanente con Trump potrebbe alimentare la sensazione che i governatori e i sindaci si interessino più della politica nazionale e delle loro ambizioni che delle condizioni di chi vive in quei posti. Più persone scontente significa anche più elettori che si trasferiscono in altri stati, con conseguenze politiche di lungo periodo, visto che negli Stati Uniti i seggi alla camera e i grandi elettori delle elezioni presidenziali vengono distribuiti agli stati in base alla loro popolazione. Già ora i democratici stanno pagando questa dinamica. Sulla base delle attuali tendenze demografiche, dopo il censimento previsto nel 2030 la California potrebbe perdere quattro seggi alla Camera, New York tre, l’Illinois due. Minnesota, Rhode Island, Pennsylvania e Oregon, altri stati solidamente democratici, dovrebbero perderne uno ciascuno. Dovrebbero invece guadagnare seggi e rappresentanza politica stati fortemente repubblicani, come Idaho, Utah, Arizona, Georgia, North Carolina, Tennessee, Florida e Texas.
In altre parole, il Partito democratico rischia di isolarsi ancora di più nelle sue roccaforti progressiste, finendo per essere votato soprattutto da chi tutto sommato è soddisfatto per come vanno le cose, e allontanarsi da quella parte dell’opinione pubblica, in questo momento maggioritaria, convinta che le cose non vadano bene. Questo ci riporta alla prima parte della domanda iniziale: quale direzione prenderà la sinistra statunitense dopo la sconfitta del 5 novembre? Nel partito tutti sono d’accordo sul fatto che gli attacchi a Trump non sono più sufficienti a vincere le elezioni, che bisogna costruire un nuovo messaggio politico e un nuovo modo di comunicare, e “recuperare la classe operaia”. (Qui un’ottima sintesi di come i democratici hanno perso un po’ alla volta i pezzi della loro coalizione elettorale).
Ma ci sono pareri molto diversi su come riuscirci e sulla direzione da prendere. C’è chi pensa che per tornare a parlare a quegli elettori il partito debba rinnegare le posizioni più radicali prese dopo la prima vittoria di Trump – su immigrazione, diritti lgbt, crisi climatica – e in generale smettere di fare battaglie identitarie su questioni che sono percepite come irrilevanti da una parte maggioritaria dell’opinione pubblica. Altri invece sono convinti che il problema non sia essersi spostati troppo a sinistra ma aver smesso di organizzare l’attività politica dal basso che serve a mobilitare le persone intorno alle cause più popolari, lasciando praterie al Partito repubblicano.
In ogni caso non è la prima volta che la sinistra si trova in questa condizione. È successo l’ultima volta vent’anni fa, dopo la bruciante e inaspettata sconfitta di John Kerry contro George W. Bush. Anche quel voto fu interpretato come un rifiuto generale delle proposte dei democratici, percepiti come elitari e lontani dalla sensibilità delle persone comuni. Il partito fu costretto a rivedere le sue idee e la sua comunicazione, ma alla fine il vero aspetto positivo di quella crisi d’identità fu che aprì un vuoto, poi colmato da qualcuno che aveva un messaggio e un aspetto inimmaginabile fino a poco prima.
Quattro anni dopo quelle elezioni, alla fine di un disastroso secondo mandato di Bush, Barack Hussein Obama diventò presidente degli Stati Uniti.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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