26 aprile 2020 11:00

Le conseguenze negative della pandemia di covid-19 si stanno facendo sentire in tutta Europa. Ma la situazione è inevitabilmente più grave nei paesi con economie deboli e democrazie fragili, soprattutto se esposti alle pressioni e alle interferenze di potenze esterne. Come quelli dei Balcani.

“La crisi del coronavirus”, si legge in un’analisi di Albana Shehaj pubblicata da Balkan Insight, “ha travolto i sistemi sanitari e le finanze pubbliche degli stati dei Balcani occidentali. Ha alimentato tensioni interne e rivelato l’esistenza di tendenze politiche che potrebbero mettere a rischio il futuro della democrazia nella regione. L’Albania, la Bosnia Erzegovina, il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia del Nord e la Serbia sono in grande difficoltà. Con risorse inferiori rispetto ai paesi dell’Europa occidentale, oggi hanno carenza di fondi, di strutture mediche e di sistemi per la gestione delle emergenze necessari ad affrontare la crisi in modo efficace”.

Nei paesi dei Balcani il numero dei casi varia sensibilmente – dagli oltre settemila della Serbia ai poco più di trecento del Montenegro – e i dati sui contagi non sono sempre attendibili, vista la scarsa trasparenza delle istituzioni e la difficoltà del settore sanitario di individuare e monitorare i malati. Ma dovunque la sanità pubblica è sotto pressione: resoconti di ospedali sopraffatti dall’enorme mole di lavoro sono comparsi, specialmente nelle prime settimane della pandemia, su diversi giornali e siti della regione.

Senza turismo
Anche l’economia è stata danneggiata pesantemente. In Serbia, per esempio, sono aumentati esponenzialmente i licenziamenti, soprattutto tra i precari e i lavoratori a tempo determinato, mentre per gli stati dell’area il Fondo monetario internazionale ha pronosticato una contrazione del pil compresa tra il 3 e il 10 per cento, molto peggiore di quella causata dalla crisi globale del 2008.

Secondo le stime, i più colpiti dovrebbero essere due paesi largamente dipendenti dall’economia del turismo: la Croazia e il Montenegro, con un - 9 per cento previsto per il 2020. A complicare ulteriormente la situazione c’è il fatto che centinaia di migliaia di persone che erano andate a lavorare all’estero sono rientrate in patria dopo aver perso il lavoro per le conseguenze della pandemia, quindi le entrate derivanti dalle rimesse sono drasticamente diminuite. Il fenomeno, evidente soprattutto in Romania ma anche altrove, ha innescato una diffusa ondata di ostilità verso gli emigrati tornati a casa, rinnovando quelle tensioni che da un paio di decenni segnano il rapporto tra la diaspora e le popolazioni stanziali dell’Europa dell’est, che oscilla tra la gratitudine e l’aperta insofferenza.

Una prima risposta alle necessità della regione è già arrivata dall’Unione europea

Oltre ai ritorni, però, ci sono state anche le partenze. Come fa notare Open Democracy, oggi l’unico segmento della popolazione europea che ancora attraversa i confini è quello dei lavoratori stagionali. Nelle ultime settimane migliaia di uomini e donne sono partiti dai loro paesi dell’Europa centrale e orientale, e quindi anche dai Balcani, per andare a raccogliere la frutta e la verdura in Germania e nel Regno Unito. Spesso trasportati da voli charter appositamente affittati e in seguito ad accordi negoziati direttamente a livello governativo.

Sulla sostenibilità economica e sociale di simili spostamenti quasi forzati, e più in generale di un’agricoltura che per funzionare ha bisogno della manodopera sottocosto di lavoratori emigrati e in molte occasioni senza diritti, si sono interrogati i mezzi di informazione sia dell’Europa occidentale sia della cosiddetta nuova Europa.

Intanto, una prima risposta alle necessità della regione è già arrivata dall’Unione europea, che ha approvato un pacchetto di aiuti bilaterali da 412 milioni di euro: 38 milioni arriveranno subito e copriranno le spese mediche e sanitarie più urgenti, gli altri 374 serviranno invece a sostenere la ripresa socioeconomica dopo la crisi. L’intervento è stato deciso per smentire l’immagine di “un’Europa che abbandona i suoi vicini nel momento della difficoltà”, idea che stava prendendo piede soprattutto a Belgrado. E forse riuscirà davvero a ricostruire la reputazione dell’Unione europea nella regione.

Un compito non facile in un paese come la Serbia, che negli ultimi anni ha visto deteriorarsi le relazioni con Bruxelles, a favore della creazione di nuovi rapporti con la Cina (Belgrado è il quarto paese europeo per investimenti diretti di Pechino) e del rafforzamento del tradizionale legame con la Russia.

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Oltre agli aiuti diretti, va anche sottolineato che alcuni paesi dei Balcani e dell’Europa orientale ancora fuori dall’Unione (in particolare Bosnia Erzegovina, Kosovo, Albania, Montenegro, Macedonia del Nord, Ucraina, Moldova e Georgia) potranno accedere al pacchetto di assistenza macrofinanziaria da tre miliardi di euro, stanziato da Bruxelles a favore di dieci paesi candidati all’ingresso nell’Ue o coinvolti nei programmi di vicinato.

La crisi sanitaria, insomma, nei Balcani si è intrecciata con vecchi problemi irrisolti, ha amplificato le debolezze dei singoli paesi ed è servita da alibi ai governi nazionali per approvare misure decisamente poco democratiche, confermando tendenze autoritarie già evidenti. Soprattutto per quanto riguarda le limitazioni alla libertà d’espressione.

Un po’ ovunque il giornalismo indipendente è in grande difficoltà. Da un parte ci sono il crollo delle entrate pubblicitarie e la sospensione dei sussidi pubblici, dall’altra le misure dei governi che, per frenare la diffusione di notizie false sul virus, compromettono la facoltà dei giornalisti di informare il pubblico. Anche in questo campo, il virus non ha fatto che esasperare problemi già esistenti. È da anni, infatti, che nella regione la libertà di stampa non gode di buona salute: secondo l’ultimo indice della libertà di stampa, pubblicato dall’organizzazione Reporters sans frontières, il paese più virtuoso dell’Europa sudorientale è la Romania, al 48° posto sui 180 della classifica, mentre quello dove è più difficile fare giornalismo è la Bulgaria, al 111° posto. In tutti gli altri la situazione oscilla tra grave e problematica.

Tra gli abusi più preoccupanti documentati nelle ultime settimane c’è l’arresto della reporter serbo-kosovara Tatjana Lazarević, fermata a Mitrovica e trattenuta per diverse ore dalla polizia con l’accusa di aver violato il coprifuoco, da cui i giornalisti dovrebbero in teoria essere esentati. Nei giorni precedenti il suo sito web, KosSev, forse l’unico mezzo d’informazione indipendente nel Kosovo del nord, aveva criticato la gestione della pandemia da parte delle autorità locali, legate a Belgrado. Per tutta risposta ai suoi giornalisti era stato intimato di non fare domande politiche per non creare motivi d’instabilità.

Messaggi per i pensionati
In diversi paesi i tentativi di impedire ai giornalisti di fare il loro lavoro vanno di pari passo con un sempre più sfacciato ricorso alla propaganda da parte dei governi nazionali. In Serbia, per esempio, dove le elezioni legislative e comunali del 26 aprile sono state rimandate, il presidente Aleksandar Vučić è comunque in costante compagna elettorale. Come racconta Danas, “il presidente va in scena per apparire come il salvatore della nazione, l’uomo che ha vinto la guerra contro quel terribile nemico invisibile che è il coronavirus. Il principale bersaglio della sua comunicazione sono i pensionati, lo zoccolo duro del suo elettorato. L’obiettivo è consolidare il loro sostegno”.

“Con decisioni che fanno pensare al loro recente passato comunista”, aggiunge su Balkan Insight Albana Shehaj, “i governi hanno dato alla polizia un potere quasi indiscriminato, hanno chiuso i tribunali, sospeso le elezioni, aumentato la sorveglianza e imposto restrizioni ai mezzi d’informazione. Sotto il profilo politico, queste misure arrivano al momento opportuno per diversi leader nazionali, e tolgono ai cittadini il potere di dissentire”.

Nei Balcani la pandemia ha colpito paesi già decimati da vent’anni di emigrazione, in particolare nelle zone rurali

Il rischio è che la nuova virata antidemocratica spinga questi paesi ancor più nelle braccia delle tre potenze più o meno autoritarie che guardano con interesse alla regione: la Turchia, la Russia e la Cina. Al di là degli aspetti geopolitici, economici e sanitari, tuttavia, va anche sottolineato come nei Balcani la pandemia abbia colpito paesi già decimati da vent’anni di emigrazione, in particolare nelle zone rurali, meno sviluppate e più lontane dalla città.

Per capire che peso avranno questi mesi di quarantena su comunità di anziani già esclusi dalla vita pubblica e condannati a vivere in povertà e ai margini della società, bisognerà aspettare la fine della crisi. Ma qualche indizio può arrivare dal reportage del sito Novosti dai villaggi di campagna della regione croata di Karlovac, tra Zagabria e l’Adriatico: “Mi chiedete della quarantena e dell’isolamento? Qui sono già vent’anni che io e i mei vicini siamo in isolamento. Non abbiano dovuto aspettare il virus”, dice all’autore un abitante del villaggio di Balinac.

In una situazione così complicata c’è però anche qualche motivo di ottimismo. Sempre Albana Shehaj scrive che “il virus ha unito i paesi dei Balcani in un lotta comune. Ha portato maggiore tolleranza e creato la consapevolezza condivisa del fatto che, almeno per adesso, gli esseri umani hanno la precedenza sulla politica e che il valore della vita non è determinato dal colore della pelle, dal passaporto o dal credo religioso”.

“In diversi casi”, sostiene Shehaj, questa consapevolezza si è manifestata sotto forma di cooperazione internazionale”. Come nel caso del team di trenta dottori e infermieri inviato dall’Albania all’Italia, a conferma che la crisi “ha dato ai paesi dei Balcani la possibilità di dimostrare di essere partner alla pari degli occidentali”. È da qui che, dopo la crisi, dovrà ripartire l’impegno comune per “difendere i diritti della democrazia”, nell’Europa sudorientale come in tutto il continente

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