16 aprile 2020 14:53

Alvanei Xirixana, 15 anni, è stato il primo indigeno yanomami contagiato dal nuovo coronavirus. È morto il 9 aprile in un ospedale di Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima, dov’era ricoverato da sei giorni. Xirixana viveva nel villaggio Rehebe, lungo il fiume Uraricoera, una regione dove trafficano migliaia di garimpeiros (cercatori illegali d’oro) che fanno affari illeciti nella Terra indigena yanomami. I medici hanno detto che il ragazzo si era già ammalato più volte di malaria e soffriva di anemia, quindi era fisicamente debilitato.

“La sua morte ha fatto crescere la preoccupazione tra gli yanomami”, scrive la Folha de S.Paulo. “Molti temono che si ripeta la tragedia provocata dall’invasione di cercatori d’oro tra gli anni sessanta e ottanta del novecento, quando il 15 per cento della popolazione morì a causa di malattie virali, in particolare del morbillo”. Secondo la ong Instituto socioambiental, finora in Brasile gli indigeni morti a causa del covid-19 sono tre. Ma il numero è destinato ad aumentare: si calcola che almeno ventimila cercatori d’oro illegali siano presenti nella Terra indigena yanomami al confine tra Brasile e Venezuela.

La paura del contagio, però, non è limitata al Brasile. Le comunità indigene che vivono nel bacino dell’Amazzonia, distribuite a cavallo di nove paesi, temono che la malattia si diffonda rapidamente nelle loro terre se non si prendono per tempo provvedimenti adeguati. La situazione è particolarmente delicata in Ecuador. Questo paese di circa 17 milioni di abitanti ha uno dei tassi di contagio più alti della regione, e la città costiera di Guayaquil, la più colpita dalla malattia, si trova a sette ore dalla foresta. Nelle province amazzoniche sono già stati confermati i primi casi di covid-19.

Miniere ancora aperte
“La situazione dei popoli indigeni è preoccupante sia per il loro isolamento geografico sia perché non hanno accesso a servizi essenziali come l’acqua potabile e l’assistenza sanitaria”, denunciano alcune organizzazioni nazionali e internazionali – tra cui la Confederación de nacionalidades indígenas del Ecuador (Conaie) e Amazon frontlines – in una lettera indirizzata al presidente dell’Ecuador Lenín Moreno. La malattia si aggiungerebbe a problemi cronici come la malnutrizione, che costringe gli indigeni a muoversi da un territorio all’altro per procurarsi da mangiare. Inoltre, il fatto che le attività estrattive e minerarie vadano avanti nonostante la quarantena espone queste popolazioni a un rischio ulteriore di contagio.

Nella provincia di Pastaza, nella regione orientale dell’Ecuador, la situazione è aggravata dal fatto che l’inizio dell’emergenza sanitaria ha coinciso con la piena dei fiumi Bobonaza e Arajuno. Nella zona di Sarayaku, dove vivono più di trenta comunità indigene kichwas, molte famiglie hanno perso la casa, le provviste e i raccolti, come denuncia in un video la presidente del popolo Sarayaku, Miriam Cisneros. Gli aiuti alimentari e logistici forniti dalla protezione civile e dal governo della provincia, fondamentali per le centinaia di famiglie colpite dall’inondazione, espongono le comunità a contatti con l’esterno e quindi fanno aumentare la possibilità degli abitanti di ammalarsi.

C’è poi un’altra questione importante: spiegare alle popolazioni indigene cos’è e a cosa serve la quarantena e perché è necessario cambiare alcune abitudini. Per facilitare la comprensione delle norme igieniche e sanitarie contro la diffusione del nuovo coronavirus, il ministero per i diritti umani dell’Ecuador ha realizzato una serie di infografiche in varie lingue indigene e le ha diffuse sui social network. Provvedimenti simili sono stati presi anche in Perù, dove il ministero della cultura ha prodotto e distribuito informazioni sul covid-19 in undici lingue originarie e cinque varietà di quechua. Uno sforzo notevole, anche se secondo il censimento del 2017 nel paese ci sono 47 lingue indigene.

Spesso lontane dai riflettori della politica e abbandonate dallo stato, molte comunità indigene hanno scelto di autoisolarsi e di difendersi da sole. In alcuni villaggi, in particolare nella regione peruviana di Junín, i leader indigeni hanno chiuso l’accesso al loro territorio e hanno formato dei comitati di autodifesa, come negli anni ottanta e novanta, quando dovevano proteggersi dal gruppo terroristico Sendero Luminoso. I nativi vogliono tutelarsi: cercano di non entrare in contatto con i cercatori d’oro e con chi traffica legna, ma anche con i narcotrafficanti che hanno interessi economici nella regione.

Il disinteresse dello stato, e nel caso del Brasile di Jair Bolsonaro gli attacchi frontali alle comunità indigene, non solo espone queste popolazioni a un rischio sanitario molto alto. Spiana anche la strada all’invasione delle loro terre e alla deforestazione senza regole, proprio in un momento in cui l’attenzione dei governi è concentrata altrove.

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