Il film No other land, prodotto da un collettivo israelo-palestinese, vincitore nel 2024 del premio per il miglior documentario al festival internazionale del cinema di Berlino e candidato agli Oscar, documenta con uno stile estremamente crudo gli espropri delle terre e delle case dei palestinesi in Cisgiordania. Un fenomeno strettamente legato alle violenze dei coloni e del governo israeliano, in forte crescita in tutti i territori occupati. Si stima che oggi siano circa 44mila le case a rischio di demolizione.
Masafer Yatta
L’immagine è sfuocata. Un soldato israeliano urla contro il giornalista e attivista palestinese Basel Adra: “Che cosa credi di filmare? Figlio di puttana!”. Il film risponde a questa domanda in modo asciutto: Adra crede di poter esercitare il suo diritto di difendersi con una videocamera. Ma sbaglia.
No other land non fornisce molto contesto di quello che accade, né grande speranza. Il materiale è essenziale e diretto: quello che si vede è la vita quotidiana di un bambino, e poi di un giovane, nato a Masafer Yatta, nelle colline di Hebron, un’area della Cisgiordania occupata che dal 2022 è diventata, su ordine della corte suprema israeliana, la “zona di tiro 918”, cioè una zona di addestramento militare per l’esercito.
Il documentario pluripremiato segue le vicende dei villaggi palestinesi in questo territorio, dal 2019 al 2023, attraverso gli occhi di Basel Adra, originario della zona, e di Yuval Abraham, un giornalista israeliano coetaneo. Il film è stato realizzato in collaborazione con altri due produttori, l’autore palestinese Hamdan Ballal e l’israeliana Rachel Szor.
Masafer Yatta è un’area costituita da una ventina di villaggi, caratterizzata da un ambiente prevalentemente agricolo, in cui alcune case sono state demolite anche dodici volte dall’esercito israeliano. A queste provocazioni, però, gli abitanti non rispondono con la violenza. Ricostruiscono. Sistemano gli impianti elettrici, spolverano i materassi e tornano a vivere nelle macerie o nelle grotte vicine, nell’attesa di concludere i lavori.
Guardandoli osservare i bulldozer mentre distruggono i loro bagni, le cucine, gli infissi delle finestre, è difficile trattenere la rabbia, la voglia di urlare contro questa ingiustizia. Una rabbia espressa anche dai cittadini palestinesi espropriati, che gridano contro i soldati israeliani senza però usare la violenza. Ma soprattutto senza andarsene via.
Perché è lì che le loro famiglie hanno vissuto da sempre, fin dai tempi del mandato britannico negli anni venti del novecento. Perché “non c’è un’altra terra”. “No other land”, come dice la vicina di Basel Adra, Farisa Abu Aram: suo figlio è stato colpito dall’esercito israeliano, rimanendo paralizzato a letto per due anni, prima di morire a causa delle ferite subite. Quando gli hanno sparato stava cercando di ricostruire la sua casa, aveva un generatore in mano e lo hanno attaccato.
Oltre al suo caso, il film documenta un ciclo infinito di espulsioni e demolizioni, e sembra non avere nessun obiettivo comunicativo preciso. Tra il mito di Sisifo e l’assurdo, bulldozer dopo bulldozer, dove la ripetizione delle immagini è perfino fastidiosa. Purtroppo però non si tratta di finzione, ma della dura realtà. Per la Cisgiordania, infatti, il futuro è tutt’altro che positivo: si assiste solo a una lenta sparizione dei villaggi, casa dopo casa.
Legalismo e demolizioni
Le demolizioni delle case sono spesso ordinate con la motivazione di abusivismo. D’altro canto, ottenere un permesso per la costruzione di un edificio per un palestinese è pressoché impossibile: secondo il quotidiano Haaretz, nel 2020 più del 98 per cento delle richieste è stato respinto dalle autorità israeliane.
Come per Masafer Yatta, anche per gli altri luoghi a rischio di demolizione come Sheikh Jarrah e Silwan, quartieri di Gerusalemme Est, o Tulkarem, nel nordovest della Cisgiordania, quando i palestinesi si rivolgono alla giustizia si scontrano con un sistema legale e giudiziario ai limiti dell’assurdo. In una scena del film si vedono gli anziani del villaggio – pastori e contadini in abiti tradizionali e kefiah bianche – di fronte alla corte israeliana, che però si pronuncia a favore dell’esercito.
In un rapporto l’ong israeliana per la difesa dei diritti umani B’Tselem ha condannato la sentenza della corte suprema di Tel Aviv su Masafer Yatta: “I giudici hanno dimostrato ancora una volta che gli occupati non possono aspettarsi giustizia dalla corte dell’occupante”.
Come ha spiegato Basel Adra, la necessità di difendersi legalmente è una delle prime ragioni per cui è stato ideato No other land. I suoi video, infatti, hanno spesso aiutato altri palestinesi accusati ingiustamente di violenza dai tribunali.
Nel periodo successivo agli accordi di Oslo del 1993, quando c’era ancora una speranza di risoluzione del conflitto, erano sorti molti progetti internazionali basati sul dialogo e sulla coesistenza dei popoli. L’idea era che la soluzione del conflitto passasse attraverso una maggiore conoscenza reciproca. E il documentario vuole mostrare quanto questo principio sia ancora valido, ma non possa reggere da solo, senza considerare la fondamentale differenza che vivono palestinesi e israeliani. In una delle loro conversazioni nel film, Basel Adra sorride per la fiducia di Yuval Abraham in un futuro migliore e afferma: “La speranza è un privilegio di chi può tornare a casa libero la sera, spostarsi o votare”.
L’uguaglianza prima del dialogo
Anche se i due ragazzi hanno costruito una solida amicizia negli anni, questa è messa a rischio dalla differenza nelle loro condizioni di vita, come hanno sottolineato alla cerimonia di premiazione del festival del cinema di Berlino, che ha fatto molto scalpore l’anno scorso. Adra ha chiesto un cessate il fuoco a Gaza, Abraham la fine all’apartheid nel suo paese.
Per queste affermazioni, i due registi sono stati attaccati dal mondo politico tedesco, con il sindaco di Berlino Kai Wagner che ha sottolineato: “Non c’è spazio per l’antisemitismo nella nostra città”.
In seguito alle sue dichiarazioni, Abraham non è potuto tornare a casa per via delle minacce di gruppi di estrema destra israeliani e per gli attacchi avvenuti davanti a casa sua.
“Mi addolora vedere come, dopo aver colpito la maggior parte della mia famiglia nell’Olocausto, la parola ‘antisemitismo’ si svuoti di significato per mettere a tacere i critici dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e legittimare la violenza contro i palestinesi”, ha sottolineato Abraham su X dopo l’accaduto. “Da israeliano di sinistra, mi sento in pericolo e persona non gradita a Berlino: intraprenderò certamente un’azione legale”.
La riformulazione della coesistenza passa dall’uguaglianza delle due parti: in questo senso, la figura di Abraham è fondamentale. Lui, insieme a molti altri giovani israeliani, è testimone e parte di una nuova generazione di attivisti.
Abraham ha incontrato Adra mentre documentava le demolizioni a Masafer Yatta. Di famiglia ebrea yemenita ed europea, ha imparato l’arabo e ora lo insegna anche ad altri israeliani. Ha preso parte a progetti importanti, come quelli di We Are Not Numbers, cooperando con vari scrittori di Gaza e trascrivendo le voci degli abitanti della Striscia in ebraico. Scrive per giornali israelo-palestinesi come +972 Magazine (dove ha pubblicato un’inchiesta su come l’esercito israeliano affida all’intelligenza artificiale la scelta dei suoi obiettivi a Gaza, tradotta su Internazionale) e testate internazionali come The Guardian.
Due anni dopo aver girato il film, la situazione a Masafer Yatta è sempre più grave. Israele ha a lungo usato le demolizioni di abitazioni come mezzo per spostare o punire i palestinesi in Cisgiordania, appropriandosi della loro terra arbitrariamente.
Con l’arrivo al potere dei ministri di ultradestra Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che vivono nelle colonie e sono ferventi sostenitori del sionismo violento, gli attacchi dei coloni sono aumentati considerevolmente, anche grazie alla protezione dall’esercito e della polizia durante i pogrom.
Secondo il comitato israeliano contro le demolizioni di case (Icahd), si è passati da 29 a 265 case demolite in un anno, mentre nell’Area C (che corrisponde al 60 per cento della Cisgiordania ed è controllata da Israele) circa 22mila case palestinesi hanno ordini di demolizione pendenti, a cui se ne aggiungono altri ventimila a Gerusalemme Est.
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