17 febbraio 2017 17:02

Ogni mattina, dopo aver accompagnato mia figlia all’asilo, mentre torno a casa a piedi prendo il telefono e do un’occhiata ai podcast che non ho ancora ascoltato. Scelgo un episodio di Homecoming, un thriller su un veterano di guerra, oppure un approfondimento sulle notizie dal mondo con Foreign desk di Monocle? Ascolto qualcosa di divertente come le nonne ebraiche Ronna & Beverly o mi concentro sulle persone dal passato irrisolto di Heavyweight, il podcast di Jonathan Goldstein?

Scorro il testo. Ascolto per mezzo minuto. Poi chiudo il podcast, apro Spotify e metto Bill Withers. Anche se li adoro, soffro di affaticamento da podcast.

I podcast si sono affermati nel 2004 ma negli ultimi anni il loro numero si è moltiplicato, in buona parte grazie al successo di produzioni come Serial. Alcuni sono prodotti fatti in casa, altri nascono grazie a network importanti come Earwolf e Gimlet Media. Il numero di ascoltatori mensili è quasi raddoppiato dal 2013, sfiorando i 57 milioni, secondo Edison Research.

Sento che il mio spessore culturale si assottiglia a ogni episodio mancato, o almeno è quello che sento che dovrei sentire

Oggi i podcast fanno parte della cultura alta. Fanno parte di quei compiti che gli adulti benestanti devono svolgere per forza e che sono anche intellettualmente più faticosi dell’ascolto di musica o della radio. Non ho mai visto The wire o Breaking bad, e ho impiegato quasi un anno per finire l’ultima stagione di Orange is the new nlack, e adesso dovrei sentirmi colpevole anche di essermi perso ogni nuovo e imperdibile podcast?

Per un progressista della East coast come me la domanda, “hai sentito quell’episodio di 99% Invisible?” contiene una pressione sociale pari a quella di “Hai letto quell’articolo del New York Times?”. Casa mia dista quindici minuti dall’asilo nido, e non vorrei accettare un lavoro in una periferia lontana solo per poter ascoltare un’altra versione leggermente modificata di This american life o di una delle decine di podcast gestiti da miei amici che parlano di argomenti come questioni urbane (#UrbanizeThis) e consigli per genitori (Advice from mom), i cui episodi escono una o due volte alla settimana. Sento che il mio spessore culturale si assottiglia a ogni episodio mancato, o almeno è quello che sento che dovrei sentire. È tempo di mettere in pausa questa follia.

A parte le mie angosce, ci sono alcune buone notizie: il boom di ascoltatori si è tradotto in un’impennata d’investimenti pubblicitari. Secondo un’indagine condotta lo scorso anno dal Nieman journalism lab di Harvard, la pubblicità sui podcast è cresciuta del 48 per cento nel 2015 (grazie, Casper, Squarespace e MailChimp) e dovrebbe crescere di circa il 25 per cento annuo fino al 2020, con ricavi che arriveranno a circa mezzo miliardo di dollari. Erik Diehn, amministratore delegato di Midroll Media, un network che si occupa di pubblicità sui podcast, afferma che “esiste una crescita rapida non solo nel numero complessivo dei podcast, ma anche dei podcast di alta qualità”. E quindi non vi state solo perdendo dei podcast, ma dei podcast di qualità davvero alta.

Se può essere di consolazione, gli autori di podcast di alta qualità hanno la nostra stessa paura di rimanere indietro. “Ho sempre l’ansia di non stare al passo”, dice Wailin Wong, coproduttore e conduttore di The distance, una trasmissione di Basecamp sulla “longevità nel mondo degli affari”. “Se io riesco ad ascoltare solo una minima parte di quel che vorrei, figuriamoci gli altri”, racconta.

Jesse Brown, autore del podcast di politica Canadaland, dice che non è colpa nostra: “Il problema è che chiediamo troppo agli ascoltatori. La radio è accesa o spenta. I podcast sono molto esigenti. Prima devi scoprire cose nuove e poi, quando l’hai fatto, c’è lo stress di tenerti aggiornato”.

O meglio, c’era. Io ho smesso di provarci. Come canta Bill Withers, it’s gonna be a lovely day, lovely day, lovely day.

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(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito su Bloomberg BusinessWeek.

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