Il poliedrico Rob Reiner è nei pensieri di tutti dopo la notizia sconvolgente che lui e sua moglie, Michele Singer Reiner, sono stati trovati morti in quello che sembra essere un duplice omicidio.
Mentre i film preferiti scorrono nelle nostre menti — This is Spinal Tap (1984), Stand by me. Ricordo di un’estate (1986), La storia fantastica (1987), Harry, ti presento Sally… (1989), Misery non deve morire (1990) — non si può fare a meno di ricordare che, come regista, Reiner partì a razzo con una serie di successi popolari che raramente si è vista da allora. Ai suoi primi cinque film, appena elencati, vanno aggiunti i due successivi: Sacco a pelo a tre piazze (1985) e Codice d’onore.
Il flop arrivò con l’ottava opera, il famigerato Genitori cercasi (1994), con un giovane Elijah Wood e Bruce Willis. Sebbene ci siano stati momenti luminosi e successi con progetti come Il presidente (1995) e Non è mai troppo tardi (2007), la metà degli anni novanta ha segnato per Reiner un netto declino, con film che in gran parte non sono riusciti a entrare in sintonia con il pubblico, tra cui L’agguato (1996), Storia di noi due (1999), Alex & Emma (2003), Vizi di famiglia (2005), The magic of Belle Isle (2012), LBJ (2016) e Attacco alla verità (2017). I critici spesso si dichiaravano sconcertati dal fatto che il tocco magico di Reiner, soprattutto nella commedia, sembrasse averlo abbandonato.
Negli anni venti dei duemila Reiner ha cominciato a trovare un po’ di slancio nei documentari. Il primo è stato Albert Brooks. Difendendo la mia vita (2023), un affettuoso esame della vita e della carriera del talentuosissimo scrittore-regista-attore che, per puro caso, era anche il migliore amico di Reiner fin dal liceo.
Poi c’è stata l’analisi cupa dell’ascesa del nazionalismo cristiano in God & country (2024). Quest’ultimo rifletteva la ben nota posizione di Reiner come uno dei più importanti attivisti liberal di sinistra di Hollywood.
L’impegno
Ha fondato l’organizzazione non profit American foundation for equal rights e, dopo la prima vittoria di Donald Trump, quando negli ambienti liberal il tema di una possibile interferenza russa nelle elezioni statunitensi era molto diffuso, il Committee to investigate Russia. Reiner è stato un convinto sostenitore di candidati democratici alla presidenza come Al Gore, Howard Dean, Hillary Clinton e Joe Biden.
Si è impegnato a fondo anche in California, facendo campagna elettorale con grande impegno in occasione di diversi referendum come quelli per il matrimonio tra persone dello stesso sesso, per tassare i prodotti derivanti dal tabacco, per sostenere scuole materne pubbliche e per diverse cause ambientali. Il suo livello di dedizione fu tale che, per un periodo, il suo nome è circolato come probabile candidato alla carica di governatore dello stato.
Questo, naturalmente, lo ha reso un bersaglio privilegiato della destra repubblicana. Ma Reiner, più di ogni altra cosa, incarnava una fondamentale decenza liberale anche al culmine del disaccordo politico. Quando Piers Morgan lo ha intervistato, poco dopo l’assassinio di Charlie Kirk, Reiner ha definito l’omicidio come un “orrore, orrore assoluto”. Non solo ha condannato l’omicidio, ma è arrivato anche a lodare il cristianesimo di Erika Kirk:
“Non dovrebbe mai succedere a nessuno, non importa quali siano le sue convinzioni politiche. Non è accettabile. Non è una soluzione ai problemi. Quello che sua moglie ha detto alla cerimonia era giusto. Io sono ebreo, ma credo negli insegnamenti di Gesù. Credo nel ‘fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te’. E credo nel perdono. E quello che lei ha detto mi è sembrato bellissimo. Ha perdonato l’assassino di suo marito. E penso che sia ammirevole”.
Parole che contrastano nettamente con il post orribile e inquietantemente narcisistico del presidente Trump sull’omicidio di Reiner:
“Rob Reiner, regista e star della commedia, tormentato e in difficoltà ma un tempo molto talentuoso, è morto insieme a sua moglie Michele, a quanto pare a causa della rabbia che ha provocato negli altri essendo afflitto da una forma massiccia, inflessibile e incurabile di una malattia mentale conosciuta come sindrome da impazzimento per Trump, a volte indicata come Sit. Era noto per aver fatto impazzire la gente con la sua ossessione furiosa per il presidente Donald J. Trump, con la sua evidente paranoia, che ha raggiunto nuove vette mentre l’amministrazione Trump superava tutti gli obiettivi e le aspettative di grandezza, con l’età dell’oro dell’America alle porte, forse come mai prima d’ora. Che Rob e Michele riposino in pace!”.
Talento da attore
Comunque, basta con la nostra disgrazia nazionale, torniamo a Reiner. È un peccato che il suo talento di attore sia stato mostrato solo sporadicamente negli ultimi anni rispetto ai suoi esordi nel mondo dello spettacolo, quando lo portò per la prima volta all’attenzione del pubblico nella longeva serie di successo All in the family (1971–1979).
Reiner interpretava Michael “Meathead” Stivic, lo studente di sinistra vicino alla laurea, con i capelli lunghi e impegnato in scontri verbali ostinati con il bigotto e reazionario suocero della classe operaia Archie Bunker (Carroll O’Connor). Figlio dello scrittore-attore-regista Carl Reiner, a sua volta una leggenda, Rob Reiner era in grado di tenere testa non solo al veterano O’Connor ma anche a Jean Stapleton, che interpretava la moglie di Archie. Vinsero tutti degli Emmy.
Eppure, in molti piccoli ruoli e cameo Reiner ha sempre saputo centrare i personaggi con facilità consumata. Per esempio, in The wolf of Wall Street, Reiner interpreta il padre chiassoso dell’imprenditore corrotto Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio). “Mad” Max Belfort va su tutte le furie quando il telefono squilla proprio mentre si sta sedendo per guardare “il cazzo di Vendicatore”. Si sente la voce di Reiner risuonare di indignazione giusta: “Chi cazzo ha la dannata faccia tosta di chiamare questa casa di martedì sera?”.
Ma naturalmente, per i cinefili, sono quei primi sette film da regista a costituire la vera eredità di Reiner. Se This is spinal tap resta uno dei film statunitensi più esilaranti di sempre, in realtà tutte le sue prime opere mostrano la capacità di Reiner di ottenere interpretazioni straordinarie, calorose, vivide, memorabilmente incisive, spesso le migliori di una carriera. I preadolescenti tormentati di fronte a una prova crudele di Stand by me, gli affascinanti seduttori romantici della fiaba La storia fantastica, la fan ossessiva e spaventosa, e il suo autore preferito tenuto prigioniero, di Misery non deve morire, Jack Nicholson e Tom Cruise che si fronteggiano in Codice d’onore: tutti questi film dimostrano la notevole versatilità e la sicurezza di Reiner in un periodo di quasi dieci anni. Molti di più di quanti ne possono contare la maggior parte dei registi.
Quindi rendiamo tutti omaggio al raro dono di Reiner per il cinema popolare, particolarmente degno di nota in un’epoca accidentata per il cinema statunitense, guardando quei primi classici in segno di tributo. Sarà un regalo per noi stessi durante queste feste.
Ma ricordiamo anche la fondamentale decenza umana di Reiner, un calore che irradiava non solo dalle sue interpretazioni, dalle sue interviste e dal suo attivismo, ma anche dai suoi film.
È qualcosa che la cricca di Make America great again sembra non riuscire a capire mentre i loro sondaggi scivolano: Rob Reiner ha creato un intrattenimento popolare che tirava fuori il meglio di noi. In poche parole, ha fatto film che hanno reso le nostre vite migliori. Chi oggi sghignazza per la sua morte, come il presidente Trump e Laura Loomer, rivela solo il peggio di noi.
Non passerà molto tempo prima che gli statunitensi tornino alle urne per un referendum su Trump. E ho la sensazione che più di qualcuno ricorderà questo tipo di crudeltà pubblica e superficiale quando esprimerà il proprio voto.
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