11 maggio 2020 14:05

È impossibile sapere con certezza quanti siano i teatri a Buenos Aires. Ufficialmente sono circa trecento. Ma la cifra reale è molto più alta. E in qualsiasi momento, in un cortile o in un salotto, ne spunta uno nuovo. Questa è una città di teatri, di librerie, di gente strana e nottambula che discetta di filosofia. L’isolamento imposto a causa della pandemia ha inferto una ferita profonda all’animo della capitale argentina. Sotto uno dei lockdown più duri al mondo, con pochi tamponi fatti, in un paese economicamente devastato e sull’orlo del default finanziario, con un sistema ospedaliero in bilico che aspetta per giugno il momento peggiore, Buenos Aires è sull’orlo dell’abisso.

Ma la capitale argentina è abituata ai disastri. Lo sa molto bene Claudio Tolcachir, 45 anni, drammaturgo, attore, regista, professore e importante esponente del nuovo teatro latinoamericano. Quando ha aperto una sala accanto al suo appartamento, nel quartiere popolare di Boedo, aveva 26 anni. Parliamo del 2001, l’anno del corralito, come fu chiamata quell’ecatombe finanziaria. “C’era gente che si vestiva in modo elegante per venire nel nostro teatrino, un locale umile in una zona che all’epoca era abbastanza pericolosa”, ricorda. “Nei momenti di grande crisi gli abitanti di Buenos Aires vanno a teatro”.

Durante questa nuova ecatombe andare a teatro non è possibile. Il teatro, allora, viene servito a domicilio. Alle otto di sera Tolcachir saluta il pubblico collegato in videochiamata, chiede di spegnere i telefoni e di abbassare le luci e trasmette un’opera registrata. Oppure trasmette in diretta un’opera messa in scena nella cucina di casa. “Il teatro non è nato per una videocamera, ma ora la situazione è questa”. Neanche la scuola di Timbre 4, la compagnia di Tolcachir, è stata creata perché gli alunni la seguissero da casa. Ma le cose oggi vanno così: ogni mattina il drammaturgo e i suoi docenti si collegano con gli studenti e vanno avanti con il programma. “Non è facile per i ragazzi provare in queste condizioni, a volte con la famiglia davanti”, dice.

Teatro migrante
Chi può pagare, paga. Chi non può, non paga. Lo stesso succede per gli spettacoli: c’è un “cappello virtuale” che gli attori passano tra il pubblico, e ognuno ci lascia i soldi che vuole. In un fine settimana ci possono essere anche più di centomila spettatori.

Tolcachir è un caso tra molti. Pensa che le crisi siano uno stimolo per la creatività. Soprattutto per un’attività così legata alla storia di Buenos Aires come il teatro. Secondo lui l’identificazione tra la capitale argentina e il palcoscenico nasce con gli immigrati, che sentivano il bisogno di ritrovare la loro cultura. Ogni comunità aveva i suoi teatri e i suoi momenti di catarsi. Dal componimento spagnolo chiamato sainete, per esempio, è nato il sainete argentino. Le dittature e le molte epoche oscure vissute dal paese hanno consolidato il ruolo del teatro come luogo di comunione e di resistenza. “Lavoriamo a stretto contatto con l’attualità e facciamo teatro di sopravvivenza, senza produzione, senza salari, semplicemente perché ne abbiamo bisogno”, afferma.

“Facciamo teatro di sopravvivenza, senza produzione, senza salari, semplicemente perché ne abbiamo bisogno”

La parola “bisogno” riaffiora spesso quando si parla di cultura a Buenos Aires. Per fare un esempio, Pablo Braun, rampollo di una delle famiglie più ricche dell’Argentina, non dovrebbe essere alle prese con la distribuzione dei libri: potrebbe occupare un ufficio di una delle aziende di famiglia, come ha fatto per un breve periodo. Ma ha bisogno di salvare la sua libreria, Eterna Cadencia, forse la migliore della città (al suo interno non c’è un solo volume che non valga la pena comprare), la piccola catena di librerie nei centri commerciali che ha comprato di recente, e la sua casa editrice. E ha bisogno di riprendere il contatto personale con i suoi clienti. Pablo Braun è quel tipo di libraio a cui si può chiedere un consiglio di lettura.

Ha fondato Eterna Cadencia nel 2005, quando l’Argentina stava cominciando a riprendersi dalla grande crisi del 2001. Pensa che la situazione attuale sia peggiore: “È un disastro, un momento drammatico che ci obbliga a reinventarci”. È tornato a lavoro. Paga dei fattorini per distribuire i libri a domicilio. È più ottimista di qualche settimana fa. Ma si domanda se la pandemia obbligherà la cultura a rifugiarsi tra le braccia delle grandi aziende digitali. “La cultura stessa dovrà riflettere su questo tema e parlarne”, commenta. E sospira: “Immagino che per il teatro sia ancora peggio”.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è uscito sul quotidiano spagnolo El País.

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