19 marzo 2024 16:04

Aiuti paracadutati dal cielo, trainati via mare, centellinati attraverso i valichi di frontiera dopo essere stati ispezionati per giorni dai soldati israeliani e assaltati da gruppi di persone che si oppongono all’ingresso di qualunque sostegno alla popolazione della Striscia di Gaza. La questione della distribuzione degli aiuti umanitari nel territorio palestinese è al centro del dibattito internazionale e tutte queste iniziative possono sembrare un nobile tentativo per salvare i palestinesi sull’orlo della carestia. Ma la realtà è diversa.

Il 15 marzo una nave noleggiata dall’organizzazione World central kitchen (Wck), del cuoco statunitense di origine spagnola José Andrés, in collaborazione con l’ong Open arms, è arrivata davanti alle coste della Striscia di Gaza. Era partita qualche giorno prima da Larnaca, città cipriota che si affaccia sul Mediterraneo proprio di fronte alla Striscia di Gaza, e trainava una chiatta con duecento tonnellate di generi alimentari. Ad aspettarla sulla spiaggia a sud della città di Gaza c’erano i soldati israeliani incaricati di supervisionare le manovre. La nave non ha attraccato, ha solo accostato e il materiale è stato scaricato su un molo costruito in tutta fretta nei giorni precedenti con materiali recuperati.

L’idea di un corridoio marittimo, sostenuta da Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito ed Emirati Arabi Uniti, ha cominciato a circolare fin dallo scorso novembre, quando Israele ha proposto di usare una parte del porto di Larnaca per convogliare gli aiuti nella Striscia di Gaza. Secondo il sito d’informazione The New Humanitarian, le autorità israeliane starebbero pensando anche alla possibilità di comprare un porto a Cipro in cui ispezionare i carichi prima che raggiungano il territorio palestinese.

Dato che Israele ha distrutto tutti i porti della Striscia, gli Stati Uniti hanno annunciato un piano per costruirne uno temporaneo per consegnare gli aiuti. Ma il Pentagono ha chiarito che ci vorranno due mesi e circa mille militari statunitensi per completare il progetto. Nel frattempo Washington e altri paesi continueranno a lanciare gli aiuti dal cielo, un metodo che diverse organizzazioni umanitarie hanno denunciato come inefficace. Se non pericoloso: all’inizio di marzo almeno cinque persone sono morte e dieci sono state ferite dopo essere state colpite da pacchi difettosi, lanciati sul campo profughi di Al Shati, a ovest della città di Gaza.

In una dichiarazione congiunta pubblicata il 13 marzo, venticinque organizzazioni non governative hanno chiesto ai governi di dare la priorità al cessate il fuoco e alla distribuzione degli aiuti via terra: “Gli stati non possono nascondersi dietro il lancio di aiuti e gli sforzi volti ad aprire un corridoio marittimo per creare l’illusione di fare abbastanza per sostenere le necessità di Gaza”.

L’articolo del New Humanitarian mette in evidenza altri limiti degli approcci alternativi. Innanzitutto, non è detto che le consegne dal mare potranno evitare i problemi già evidenti nella distribuzione via terra, dovuti in particolare al controllo capillare esercitato dalle autorità israeliane sul territorio. Anche Rami Khouri su Al Jazeera esprime vari dubbi: chi distribuirà i prodotti importati? Come faranno a raggiungere le persone che ne hanno bisogno in mezzo ai bombardamenti? Sarà coinvolto tutto il territorio oppure solo la parte meridionale? Secondo Khouri, il piano statunitense non è un “tentativo serio” di alleviare le sofferenze dei palestinesi, ma piuttosto un “cerotto diplomatico” per distogliere l’attenzione dall’offensiva israeliana, sostenuta dallo stesso governo di Washington.

Anche le consegne aeree hanno vari problemi. Un camion può contenere circa dieci volte la quantità di cibo rispetto a un pacco lanciato dal cielo. Inoltre, nelle altre crisi in cui si è fatto ricorso a questo tipo di consegne – per esempio durante la guerra civile siriana o per aiutare i profughi yazidi circondati dal gruppo Stato islamico in Iraq – le Nazioni Unite si sono sempre coordinate con organizzazioni attive sul campo per garantire una distribuzione sicura.

In questo caso, però, non sono coinvolte le organizzazioni che hanno sempre svolto un ruolo fondamentale nella consegna degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, prime tra tutte la Mezzaluna rossa palestinese e l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Il mancato coordinamento con le realtà sul campo può avere conseguenze catastrofiche, come dimostrano gli incidenti che si sono verificati nelle ultime settimane durante la distribuzione degli aiuti: 118 persone morte a causa della calca e del fuoco dei soldati israeliani il 29 febbraio e altre venti uccise dalle forze israeliane il 15 marzo.

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“C’è una certa ironia nel fatto che gli Stati Uniti devono fare consegne dal cielo quando le persone che impediscono l’arrivo degli aiuti sono i suoi più stretti alleati”, ha detto Shaina Low, portavoce del Norwegian refugee council, al New Humanitarian. Lo conferma anche Huwaida Arraf, attivista e avvocata statunitense palestinese che in passato ha collaborato con la Freedom flottilla e ora sta organizzando un nuovo viaggio verso la Striscia di Gaza. Parlando con Samer Badawi di +972 Magazine dice: “Non ha senso che l’aiuto umanitario sia coordinato con chi ha pubblicamente annunciato di voler far morire di fame i palestinesi di Gaza. E in fin dei conti i palestinesi non vogliono vivere di aiuti. Vogliono, necessitano e meritano la libertà”.

Nell’articolo su +972 Magazine, Badawi spiega che anche se questi progetti sono presentati come un modo per rispondere alle necessità più urgenti degli abitanti di Gaza, in realtà li lasciano “in mano agli stessi governi che aiutano e favoriscono l’offensiva israeliana sulla Striscia”. Inoltre, prosegue Badawi, rivelano l’impotenza dei sostenitori di Israele: “Dopotutto, il bagno di sangue che continuano a finanziare si misura non solo in corpi palestinesi straziati e paesaggi devastati, ma anche in una deliberata campagna di fame che si sta svolgendo sotto i loro occhi e che, ammettono anche i funzionari statunitensi, non può essere annullata con misure tampone”.

Un test per tutti

Per mesi gli Stati Uniti hanno cercato di convincere Israele a consentire l’arrivo degli aiuti al porto di Ashdod, trenta chilometri a nord di Gaza, senza però riuscirci. Le Monde spiega questo fallimento con il fatto che Israele non vuole accettare di far organizzare un’operazione umanitaria nel suo territorio per timore che possa sollevare le critiche dell’opinione pubblica e portare alla luce le sue responsabilità nelle conseguenze della guerra sulla popolazione di Gaza.

Ghassan Salamé, professore di Sciences Po, dice al quotidiano francese: “All’origine di tutta l’agitazione umanitaria a cui assistiamo oggi c’è il timore di Israele che Hamas si riprenda attraverso la distribuzione degli aiuti”. Tel Aviv crede di poter controllare meglio quello che succede nel corridoio marittimo. Parallelamente l’idea dei lanci dal cielo è “messa alla prova”. Tutti gli operatori umanitari sanno che questo è un approccio con molti limiti, che non può soddisfare i bisogni di un territorio devastato e affamato. Ma si tratta di una sorta di “test” per “l’internazionalizzazione della risposta umanitaria”: gli Stati Uniti hanno chiesto il sostegno dei paesi del Golfo, che partecipando alle operazioni di salvataggio dei civili di Gaza possono attenuare la rabbia delle loro popolazioni per il destino dei palestinesi.

Israele sostiene di non mettere limiti agli aiuti umanitari. Ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano il blocco della distribuzione via terra imposto da Tel Aviv negli ultimi mesi. Prima del 7 ottobre 2023 circa cinquecento camion di aiuti entravano tutti i giorni nella Striscia di Gaza. Dopo gli attacchi di Hamas, Israele ha bloccato l’ingresso di generi alimentari, carburante, rifornimenti medici e altri beni. A fine ottobre è stato autorizzato l’ingresso di alcuni aiuti attraverso dei camion: a poco a poco sono diventati un centinaio al giorno fino alla fine del 2023, il doppio durante il cessate il fuoco di novembre. Dopo un calo significativo a febbraio, a marzo una media di 166 camion al giorno è entrata nella Striscia di Gaza.

I valichi usati sono due, entrambi vicini alla frontiera meridionale con l’Egitto. Il 13 marzo le autorità israeliane hanno consentito a sei camion del Programma alimentare mondiale (Pam) di raggiungere direttamente il nord della Striscia di Gaza: è stato il primo convoglio autorizzato in questa parte del territorio dal 20 febbraio. Trasportava generi alimentari per 25mila persone, ma il Pam ha sottolineato che per rispondere alle esigenze primarie della popolazione le consegne dovrebbero essere quotidiane.

Secondo un rapporto pubblicato il 18 marzo dall’iniziativa globale Integrated food security phase classification (Ipc), che monitora le crisi alimentari ed è sostenuta da varie agenzie delle Nazioni Unite, un abitante su due della Striscia di Gaza (circa 1,1 milioni di persone) sta affrontando una situazione alimentare catastrofica, soprattutto nella parte settentrionale del territorio, che potrebbe essere colpita da una carestia entro maggio. Rispetto al precedente rapporto dell’Ipc, risalente a dicembre, l’insicurezza alimentare è diventata più profonda e ampia e la malnutrizione è in aumento. La situazione potrebbe peggiorare ancora nel caso di un’operazione di terra dell’esercito israeliano a Rafah, la città del sud in cui sono rifugiate centinaia di migliaia di persone. Nel nord della Striscia di Gaza almeno 27 bambini sono già morti di malnutrizione nelle ultime settimane. L’Ipc raccomanda di ripristinare al più presto l’accesso umanitario all’intero territorio.

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