24 dicembre 2021 11:13

Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2019 sul numero 1291 di Internazionale.

Alla festa di Natale del Guardian nel 2017 – una cosa abbastanza dimessa, dove la proporzione tra chi vorrebbe ballare e chi invece preferisce parlare è almeno di uno a cinque – ho conosciuto Chibundu Onuzo, una scrittrice nigeriana.

“Abbiamo lo stesso editore”, mi ha detto.

“Scusami, non ho letto il tuo libro”, le ho detto io.

Chibundu ha archiviato le mie scuse con generosa indifferenza. Siamo andati avanti a chiacchierare e siamo stati tra i primi a scendere in pista.

A quanto pare a Chibundu non dava fastidio che non conoscessi il suo lavoro, ma a me sì. Non so spiegarmi esattamente il motivo. Ci sono un sacco di libri che non ho letto. Un pensiero, però, continuava a tormentarmi: non solo non l’avevo mai letta, ma non l’avevo mai sentita nominare. Perché?

Ho capito che era arrivato il momento di aggiustare il tiro: per un anno, avrei letto solo scrittrici africane. Non per virtù, ma per curiosità; volevo sapere cosa mi stavo perdendo. Non ero completamente digiuno di letteratura femminile di quelle parti del mondo: conoscevo già Chimamanda Ngozi Adichie, Ama Ata Aidoo, Bessie Head, Buchi Emecheta, Leila Aboulela, Gillian Slovo, Nadine Gordimer e Zoë Wicomb. E conoscevo abbastanza bene anche l’Africa: ho vissuto in Sudan per un anno, ho fatto il giornalista in Sudafrica, in Mozambico, in Zimbabwe, in Tanzania e in Sierra Leone e sono stato in vacanza in Ghana. Erano almeno quattro anni, però, che non leggevo nessuna di queste autrici e cinque che non mettevo piede nel continente.

Fino a poco tempo fa la mia impresa sarebbe stata molto più difficile. “Prima c’erano pochissime scrittrici, e le trovavi quasi sempre in collane scolastiche”, spiega Margaret Busby, curatrice di Daughters of Africa, fondamentale antologia del 1992 dedicata alla narrativa femminile africana. “Oggi le conoscono tutti. Penso che gli editori si siano resi conto del successo che possono avere con scrittrici come Chimamanda e ovviamente vogliono provarci”.

Ma ancora oggi non è facile come potrebbe sembrare. “Se dobbiamo tenere il conto delle donne africane che hanno sfondato vuol dire che abbiamo ancora tanto da fare”, dice Busby.

All’inizio non ho seguito uno schema. Ho cominciato con i libri che avevo già, ho chiesto consigli su Facebook e sono andato su Amazon a vedere cosa mi proponeva in base alle mie ricerche. Poi, verso Pasqua, ho capito che se non mischiavo un po’ le carte avrei letto solo autrici nigeriane (nulla di male in sé, ma non era quello che avevo in mente), perciò mi sono sforzato di cercare scrittrici di altre parti del continente. In un anno ho letto 18 libri di autrici provenienti da Ghana, Marocco, Zimbabwe, Nigeria, Sierra Leone, Senegal, Egitto, Somalia, Uganda, Etiopia e Camerun. Ho letto storie d’amore, racconti brevi, saghe, romanzi politici, storie di fantasmi, d’infertilità, di colpi di stato, di occupazioni e migrazioni, raccontate da uomini e donne inglesi, prime, seconde, terze e quarte mogli, da figli, schiavi e schiavisti, ambientate in tutti e quattro i continenti e in ogni epoca dal sedicesimo secolo in poi.

Leila Marzocchi per Internazionale

Il libro che mi sono sentito consigliare più spesso è il romanzo d’esordio della scrittrice ghanese-americana Yaa Gyasi Non dimenticare chi sei, una saga che si svolge su entrambe le sponde dell’Atlantico e coinvolge più generazioni. La storia comincia in un villaggio asante del settecento e segue le vicende delle discendenti di Maame, madre di due figlie. Una è sposata con il governatore britannico che dirige la fortezza degli schiavi di Cape Coast castle; l’altra, Esi, è tenuta in schiavitù nei sotterranei. Nei capitoli successivi seguiamo le vicende dei loro discendenti, in Africa e negli Stati Uniti.

Il romanzo di Gyasi è ambizioso e ha una prospettiva molto ampia. Forse l’avrei apprezzato di più se prima non avessi letto due libri che usano lo stesso espediente letterario con più efficacia.

Il primo è Segù di Maryse Condé. Racconta la storia dell’omonimo regno dell’Africa occidentale che lotta per difendere le sue tradizioni e la sua integrità contro l’espansionismo cristiano e musulmano. La vicenda comincia nel 1797, quando “Segù era all’apice della sua gloria”. Il romanzo segue la discendenza di Dousika Traoré, il consigliere di corte più ascoltato dal re di Segù, attraverso i suoi quattro figli e poi oltre. Condé, 81 anni, sfrutta le sue conoscenze storiche con mano leggera, dando vita a personaggi complessi che non si riducono a meri contenitori di un’epoca storica. Condé non è africana ma francese: distratto dalle vicende di Segù, che avevo già a casa, me ne sono ricordato solo quando avevo già cominciato a leggere e non potevo più smettere.

L’altro libro che usa l’espediente della storia di famiglia è Kintu, il primo romanzo della scrittrice ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi, che vive a Manchester. È la storia di una maledizione che si tramanda di generazione in generazione ambientata in quella che oggi è l’Uganda. Il libro comincia con l’omicidio di un uomo che viene scambiato per un ladro e poi racconta la storia di un potente governatore che uccide il figlio, scatenando una maledizione che attraverserà varie epoche. La prosa e lo stile di Makumbi sono inquietanti come la trama: “Appena il sole si sposta al centro del cielo per infliggere i suoi peggiori strali, compare alla vista o Lwera, una regione brulla. Anche da questa distanza si ode una nenia, il brusio del calore. Onde di radiazioni danzano nell’aria lanciando un ammonimento: attraversate queste terre a vostro rischio e pericolo”.

Nel suo saggio satirico How to write about Africa (come scrivere di Africa), pubblicato su Granta nel 2006, Binyavanga Wainaina avverte: “Mai mettere in copertina (ma neanche all’interno) la foto di un africano ben vestito e in salute, a meno che quell’africano non abbia vinto un Nobel. Argomenti tabù: scene di vita quotidiana, amore tra africani, riferimenti a scrittori o intellettuali, cenni a bambini scolarizzati che non soffrano di framboesia, ebola o abbiano subìto mutilazioni genitali”.

Nelle mie letture ho trovato scene di vita quotidiana e amore tra africani. Ma ho notato che sono veramente rari i libri delle scrittrici dell’Africa occidentale, le nigeriane in particolare, che non abbiano a che fare con la poligamia. Probabilmente non c’è da sorprendersi, se pensiamo a quante storie la letteratura inglese è riuscita a costruire sulla monogamia. Nella migliore delle ipotesi, quando gli uomini africani scrivono di poligamia la presentano come un problema: quello di riuscire a mantenere la pace tra le mogli. Comprensibilmente, le scrittrici affrontano il tema in modo diverso. Sta alle donne gestire l’umiliazione, la competizione, la gelosia e il rancore che nascono quando un uomo invita un’altra donna a dividere il letto e la casa. Emerge un ordine gerarchico tra mogli e figli da cui scaturiscono una serie di relazioni violente tra uomini e donne, donne e donne e donne e figli, con conseguenti rivalità che alimentano l’intreccio.

Leila Marzocchi per Internazionale

Il più tenero di questi libri è anche il più breve: Una così lunga lettera, 95 pagine della scrittrice senegalese Mariama Bâ, morta nel 1981 a 52 anni. Nel romanzo, concepito in forma di lettera, Ramatoulaye Fall scrive alla sua migliore amica Aissatou per raccontarle della morte del marito Modou, che l’ha abbandonata insieme ai suoi dodici figli per sposare in seconde nozze un’amica della figlia. “E pensare che ho amato quest’uomo appassionatamente”, scrive Ramatoulaye. “E pensare che gli ho dato trent’anni della mia vita, e che per dodici volte ho portato in grembo suo figlio. Non gli è bastato portare una rivale nella mia vita. Amando un’altra, ha bruciato il suo passato, moralmente e materialmente”.

Nei romanzi più recenti la poligamia sembra rappresentare una minaccia al senso di modernità, propagandosi dai centri urbani alle periferie, particolarmente in Nigeria, dove secondo un censimento del 2008 un terzo delle donne e un ottavo degli uomini sposati tra i 15 e i 49 anni sono in unioni poligame.

Questa dinamica si complica ulteriormente, o a volte s’innesca, quando l’interesse si sposta dal letto all’utero, e quindi al senso di colpa e alla disperazione delle donne che costringono il loro corpo a produrre l’unica cosa in grado di legittimare sia il loro matrimonio sia la loro femminilità: i figli. Per fare un bambino bisogna essere in due, ma la fertilità e la fecondità sono considerate una responsabilità della donna, anche perché rappresentano il fondamento dell’onore dell’uomo.

È il tema di fondo di Prudenti come serpenti di Lola Shoneyin, in cui Bolanle Alao, laureata dalle brillanti prospettive, entra a far parte di una famiglia poligama come quarta moglie. Il ruolo del marito Baba Segi nella vicenda è quasi incidentale: è una specie di dittatore benevolo in uno stato di repressione emotiva le cui tragicomiche evoluzioni sessuali vengono descritte nei minimi particolari. “Baba Segi era pesante”, racconta una delle sue mogli. “Tutto in lui era goffo e impacciato. Grugniva e ansimava, versava la sua acqua dentro di me e crollava sul mio seno”. Solo la descrizione della subordinazione di Zakariah alla sua “ghiandola” in Zeina, della scrittrice e psichiatra egiziana Nawal El Saadawi, è più degradante. Nella casa di Baba Segi, però, è Bolanle a finire in disgrazia. Disprezzata e temuta dalle altre mogli, che le provano tutte – compreso l’omicidio – per sbarazzarsi di lei, Bolanle non rimane incinta. L’onta della sterilità, la presenza invadente della suocera, lo sguardo deluso che si fissa sulla pancia piatta di una novella sposa, i rimedi naturali e le visite ai guaritori tradizionali sono temi ricorrenti.

“Ti sei tenuta mio figlio tra le gambe per altri due mesi e il tuo stomaco è ancora piatto”, dice la suocera Moomi alla protagonista Yejide nell’eccellente Resta con me di Ayò.bámi Adébáyò.. “Adesso chiudi le gambe per lui. Se non fai così morirà senza figli. Ti prego, non mi rovinare la vita”, dice Moomi, che spera in un’altra delle mogli del figlio. Seguiamo Yejide attraverso una gravidanza fantasma, bambini morti e una seconda moglie, mentre un vivace cast di personaggi secondari assiste e contribuisce alla disgregazione del suo matrimonio.

Il profumo delle notti sul Nilo di Ahdaf Soueif è uno dei libri in cui a dominare sono le tensioni più consuete dei rapporti monogami, come avviene nel già citato Zeina, in cui l’amore è assente, e nel romanzo Il ricordo dell’amore di Aminatta Forna, in cui s’intrecciano le storie di un matrimonio non consumato, di un amore incompiuto e di un corteggiamento che va a buon fine. Il romanzo di Soueif racconta le storie d’amore parallele tra un direttore d’orchestra egiziano-statunitense e una giornalista americana negli Stati Uniti negli anni novanta e tra una vedova inglese e un medico egiziano in Egitto agli inizi del novecento. È l’unico dei libri che ho letto in cui l’amore romantico è completamente al centro della storia.

Resta con me, come molti altri romanzi, siano essi ambientati in Egitto (Zeina e Il profumo delle notti sul Nilo), Uganda (Kintu e Tropical fish di Doreen Baingana), Zimba-bwe (C’è bisogno di nuovi nomi di NoViolet Bulawayo), Sierra Leone (Il ricordo dell’amore) o Stati Uniti (Siamo noi i sognatori di Imbolo Mbue), usa le insurrezioni politiche come sfondo, a volte in maniera incidentale. Spesso sono poco più di una nota a margine: “Eravamo alla Makerere university”, scrive Baingana. “Eravamo la crème de la crème. Ci eravamo risparmiati i proiettili di Amin, Obote, tutti i colpi di stato, la guerra economica, l’esilio e il ritorno ed eccoci qui, avviati al successo”.

L’unico romanzo in cui la politica è al centro della scena è Lo sguardo del leone di Maaza Mengiste, ambientato in Etiopia durante la caduta dell’imperatore Haile Selassie e nei primi anni della dittatura Derg. Attraverso la storia di una famiglia (il medico Hailu, i suoi due figli, il pio Yonas e il ribelle Dawit, i loro amici e vicini) assistiamo alla disintegrazione del paese e alla sua trasformazione in regno del terrore. La descrizione di atti individuali di moralità e resistenza – piccoli e grandi, utili e futili – in una società che sprofonda nella brutalità e nel conformismo lascia a bocca aperta nonostante il fatto che tutti i personaggi tranne Hailu siano monodimensionali. “Vuoi salvare la gente?”, dice un capo rivoluzionario a Dawit, che ignora gli ordini di un soldato provando a trascinare via dalla strada il cadavere di una donna che conosce. “Allora salva i vivi. Non vale la pena di morire per quelli che sono morti”.

A differenza di molti romanzi di neri britannici, che spesso seguono una linea temporale frammentata, pochi tra i libri che ho letto (Zeina, Kintu, Il ricordo dell’amore) saltano dal passato al presente. In compenso spaziano geograficamente, raccontando storie di migrazione all’interno dell’Africa (Segù, Mamba boy di Nadifa Mohamed, Non dimenticare chi sei) o fuori. Siamo noi i sognatori, Non dimenticare chi sei, Tropical fish e C’è bisogno di nuovi nomi ci portano negli Stati Uniti, Segù in Brasile. Filosoficamente, le autrici di questi romanzi si sentono più nei loro panni rispetto alle loro colleghe figlie della diaspora in Europa e negli Stati Uniti, che spesso si trovano a elaborare attraverso la scrittura i loro problemi di appartenenza e discriminazione e la condizione di minoranza. Le differenze etniche, tribali, religiose e regionali a volte spingono i protagonisti a interrogarsi sul loro ruolo nella società, ma mai sul fatto se sono a casa o meno. Questo senso di fiducia scompare man mano che si allontanano dall’Africa.

Qualcosa nel mio subconscio mi diceva che i libri delle scrittrici africane sarebbero stati più difficili da leggere rispetto ad altri. Non era vero

La storia di migrazione più ambiziosa e straordinaria è probabilmente quella raccontata da Laila Lalami in The moor’s account, che racconta la disastrosa spedizione nel nuovo mondo dalla Spagna alla Florida dal punto di vista di Estebanico, uno schiavo moro a cui l’autrice dà il nome originale di Mustafa. Mustafa è uno dei quattro superstiti del contingente di trecento persone che prendono parte alla spedizione: alcuni si perderanno, altri saranno uccisi e altri ancora finiranno mangiati dai loro colleghi esploratori. Man mano che la spedizione va avanti, con tutta la brutalità e l’arroganza tipiche di un’avventura imperiale, il numero dei sopravvissuti diminuisce e l’ordine gerarchico tra schiavo e padrone viene meno, minacciando di ristabilirsi solo quando i quattro, alla fine, si ricongiungono ad altri coloni spagnoli. “Le regole e le formalità che erano esistite a terra non potevano essere rispettate sulle zattere”, osserva Mustafa. “Peggio: le nostre abluzioni non erano più private. Ma per uno come me, che aveva già conosciuto queste umiliazioni, era un modo per ricordare che tutte le sorti, compresa quella del mio padrone, possono essere sovvertite. E io avrei fatto tutto il necessario per raddrizzare la mia”.

Le mie scelte in fatto di narrativa non sono sempre azzeccate. In generale, leggo saggistica per lavoro e narrativa per diletto. Di tanto in tanto, spinto da una recensione o più spesso perché me l’ha consigliato qualcuno, prendo un libro dallo scaffale e provo. Arrivo in ritardo praticamente su tutto. A volte provo a cimentarmi con libri che penso che avrei dovuto leggere – un classico russo o un libro premiato – ma raramente funziona. In mancanza di alternative vado sugli scrittori neri occidentali, quelli che mi capita più spesso di vedere citati nel lavoro degli altri e di citare nel mio. È raro, per esempio, che d’estate non mi porti in vacanza un libro di Walter Mosley. Nel 2017, però, ho divorato Tutta la luce che non vediamo di Anthony Doerr; l’anno prima mi era successo lo stesso con i romanzi di Elena Ferrante. Nel 2018 mi sono piaciuti più libri del solito.

Uno dei più belli è stato Welcome to Lagos di Chibundu Onuzo. È la storia di Chike Ameobi, un ufficiale che diserta dall’esercito nigeriano insieme al suo laconico subordinato Yemi dopo essersi rifiutato di sparare sui civili nel delta del Niger. Durante la fuga, i due incontrano Fineboy, un tipo ambiguo che combatte con i ribelli, Isoken, una ragazza di 16 anni che sta per essere stuprata dallo stesso Fineboy e dai suoi amici ribelli, e Oma, in fuga da un marito violento. Questa improbabile banda di reietti decide di proseguire il viaggio insieme, affrontando una serie di avventure in cui dormiranno per strada, occuperanno un appartamento, faranno arrestare un ministro corrotto, ridistribuiranno i soldi rubati alle scuole e alla fine si rifaranno una vita. È un racconto costruito splendidamente. Non sono riuscito a metterlo giù finché non l’ho finito.

Leggere queste scrittrici, vecchie e nuove, è stato come entrare in un nuovo mondo: improvvisamente spuntano dappertutto e chissà perché non ti eri mai accorto della loro presenza. Dopo un anno di letture mi sento come quando da adolescente divoravo libri sulla Russia o a vent’anni leggevo qualsiasi cosa sul sud degli Stati Uniti o sul rinascimento di Harlem: sento il bisogno di vedere questi luoghi che sono stati descritti in maniera così vivida per me, in particolare la Nigeria e l’Uganda. Non posso fare a meno di pensare che, se non mi fossi preso questo impegno, probabilmente non avrei letto la maggior parte di questi romanzi. Mentre m’interrogo sul perché, mi tornano in mente le parole che mi disse la scrittrice afroamericana Maya Angelou, morta nel 2014, a proposito delle sue scelte sentimentali: “Posso innamorarmi anche di un lottatore di sumo se mi racconta delle storie e mi fa ridere”, mi disse. “Ovviamente, sarebbe più facile con un afroamericano che abita vicino a casa e frequenta la mia stessa chiesa, perché in questo modo non avrei il problema della traduzione. Ma una volta che faccio lo sforzo d’imparare una lingua e rispettare una cultura posso andare d’accordo con chiunque, in qualsiasi luogo. Penso che il mio posto sia dovunque ci sono altri esseri umani”.

Con la letteratura, dato che la scelta è immensa e il tempo è limitato, una parte di me di cui non vado particolarmente fiero preferisce non fare questo sforzo, anche quando non servono traduzioni. Qualcosa nel mio subconscio mi diceva che i libri delle scrittrici africane sarebbero stati più difficili da leggere rispetto ad altri. Non era vero. Chissà perché consideravo la letteratura femminile africana come più utile che piacevole: in realtà è stata quasi sempre piacevole (e spesso anche utile).

Adesso che ho aggiustato il tiro non vedo l’ora di scoprire chi incontrerò alla prossima festa di Natale.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo articolo è stato pubblicato il 25 gennaio 2019 sul numero 1291 di Internazionale. Era uscito sul Guardian.

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