17 aprile 2024 12:40

Siamo nel cupo 1985. Quando muore il segretario generale del Partito comunista Konstantin Černenko, appena tredici mesi dopo il suo predecessore Jurij Andropov, a prendere le redini di un’Unione Sovietica che sembra ancora capace di durare per sempre è un certo Michail Gorbačëv. Negli stessi giorni, nella grigia Cecoslovacchia di Gustáv Husák, uno dei dissidenti più brillanti del gruppo Charta 77, Jiří Dienstbier, scrive un saggio affascinante e profondamente utopistico intitolato Snění o Evropě (Sognare l’Europa).

L’essenza dell’utopia di Dienstbier è la visione di un continente senza blocchi di potere, senza patto di Varsavia, senza Nato, in cui tutti i cittadini potranno godere di una vita pacifica nella “casa comune europea”: i cecoslovacchi, i baltici, gli jugoslavi, mano nella mano con i tedeschi (uniti, naturalmente), i norvegesi, gli inglesi. Per quanto oggi possa sembrare strano, Dienstbier sogna che perfino i russi possano unirsi alla grande famiglia europea.

Con un colpo di scena sorprendente, meno di cinque anni dopo la pubblicazione di quel saggio Jiří Dienstbier diventa ministro degli esteri della Cecoslovacchia in seguito alla rivoluzione di velluto del 1989.

Tra gli slogan che più spesso si leggono sugli striscioni che adornano le piazze cecoslovacche nei giorni, innocenti e ingenui, del novembre 1989, uno sembra quasi un ossimoro: “Torniamo all’Europa”. In un paese che sotto il profilo geografico è sempre stato considerato centroeuropeo, la frase può sembrare priva di senso. Eppure è importante: perché testimonia l’ambizione di realizzare l’audace utopia del libro di Dienstbier.

Anche se per vedere realizzato questo sogno ci vorranno quindici lunghi e turbolenti anni, che probabilmente produrranno più delusioni e perdite che conquiste e gioie, quando finalmente il momento arriva, nel 2004, i cechi dimostrano di essere in stragrande maggioranza favorevoli a confermare la loro vocazione e a entrare nella comunità delle nazioni europee “avanzate”. Quasi quattro elettori su cinque, tra quanti partecipano al referendum sull’ingresso nell’Ue, votano sì. Una maggioranza schiacciante, in un clima di giubilo collettivo.

Dissolvenza. Stacco. Sono passati vent’anni. La situazione è molto diversa. La Repubblica Ceca dà l’immagine di un paese profondamente disinteressato agli affari europei, con una delle affluenze più basse del continente alle elezioni per il parlamento europeo: l’immagine di una nazione radicalmente divisa tra i difensori di un governo di centrodestra, inadeguato e in difficoltà, e i sostenitori dell’opposizione, nazionalista, populista, autoritaria e in costante crescita; quella di un paese con forse la più ricca tradizione progressista di tutto il blocco dell’Europa dell’est, ma senza nemmeno una forza di sinistra minimamente rilevante. La Repubblica Ceca sembra un paese profondamente disilluso, con una democrazia fragile e in via d’estinzione.

Resta da vedere come tutto ciò peserà sulle elezioni europee di giugno. Forse qualche giornalista straniero si prenderà la briga di venire in Repubblica Ceca per raccontare delle storie laterali e affascinanti. Magari leggerete una bella storia sul più forte “partito pirata” dell’Ue, che manda a Bruxelles un gruppo di giovani brillanti e intelligenti; o un articolo sulla rinascita del Partito verde (Strana zelených) che, dopo quasi vent’anni di crisi, oggi ha candidato una donna giovane e carismatica, Johanna Nejedlová (che ha fatto parlare di sé grazie a una campagna per ridefinire il reato di stupro nel diritto penale ceco) e il leader del movimento ceco dei Fridays for future, Petr Doubravský.

Ma per quanto queste storie siano commoventi o stimolanti, non sono altro che una distrazione, visto che questi piccoli partiti porteranno al parlamento europeo al massimo tre o quattro eurodeputati sui 21 che spettano al paese. In altre parole, si tratterà di una minima percentuale rispetto all’esercito di “mostri” della politica che saranno eletti nelle liste dell’estrema destra, degli ultraconservatori e, soprattutto, del movimento populista dell’ex primo ministro Andrej Babiš (Ano 2011, conservatore), che quasi sicuramente vincerà la tornata elettorale del 9 giugno: l’unica vera domanda è con quale margine lo farà e quanti eurodeputati aggiungerà al drappello dei sei che già ha a Bruxelles e Strasburgo.

La Repubblica Ceca manterrà quasi certamente il suo dubbio primato di unico paese dell’Unione senza europarlamentari eletti in liste di sinistra e centrosinistra. In un certo senso l’implosione della sinistra ceca — i socialdemocratici erano il partito più forte del paese solo dieci anni fa — potrebbe essere un evento molto istruttivo. Ma questa è tutta un’altra storia.

La caotica campagna elettorale ceca sarà una tortura per chi crede che l’Unione europea abbia il potenziale per diventare la vera erede ideologica della Cecoslovacchia di Tomáš Masaryk e del già citato Dienstbier, i quali oggi cercherebbero invano dei partiti pronti a difendere gli interessi europei nel contesto ceco. Quello che succede oggi è infatti esattamente il contrario.

Gli eventi più interessanti arriveranno dopo le elezioni. Il presidente francese Emmanuel Macron e i suoi sodali liberali ripeteranno la colossale ipocrisia di invitare gli europarlamentari orbanisti di Andrej Babiš a rientrare a tutti gli effetti nel gruppo Renew Europe? O hanno imparato la lezione, vedendo come Babiš abbia partecipato, a fianco di Orbán, alla campagna elettorale del populista filorusso Robert Fico alle ultime elezioni parlamentari slovacche?

Naturalmente, il problema non è solo Macron. C’è voluto troppo tempo prima che i socialisti europei prendessero misure contro il partito di Fico, Direzione- Socialdemocrazia (Směr), o che i popolari cacciassero Fidesz, la formazione di Orbán. Una piccolo dubbio radicale: non potrebbe essere che il paternalistico “orientalismo intraeuropeo” con cui i tedeschi o i francesi trattano le entità politiche dei paesi dell’Europa centrorientale contribuisca ad alimentare la disillusione nei confronti dell’Unione che osserviamo in tutta la regione?

Qualunque sia la risposta, per i cechi le conclusioni dell’attuale capitolo politico non saranno scritte ora, ma alle elezioni parlamentari del 2025, quando si prevede che i partiti autoritari trasformeranno il crescente sostegno di cui godono in una valanga di voti. È un’esperienza unica vivere nella Repubblica Ceca in questo momento storico: stiamo infatti assistendo alla morte annunciata di una democrazia. Le elezioni europee saranno solo un piccolo incidente in questo viaggio fatale.

Tuttavia, potrebbe anche succedere che, quando i cittadini dell’Unione andranno alle urne per eleggere i prossimi europarlamentari, ci sarà una domanda che incomberà sul voto: com’è potuto succedere che i cechi non sognano più l’Europa?

(Traduzione di Francesca Barca)

Questo articolo fa parte del progetto Voices of Europe 2024, che coinvolge 27 mezzi d’informazione in tutta Europa, coordinati da Voxeurop.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it