Il 5 giugno all’assemblea annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) è passata una risoluzione contro la giunta militare birmana che i sindacati internazionali non esitano a definire storica: per la terza volta da quando l’Ilo esiste si è deciso di invocare l’articolo 33 della sua costituzione, la misura più grave disponibile nel quadro dell’organizzazione. La risoluzione chiede ai componenti dell’organizzazione – governi, datori di lavoro e lavoratori di tutto il mondo – di garantire che le loro azioni non favoriscano la continua repressione della popolazione da parte della giunta. Questo apre la porta alle iniziative sindacali che chiedono la revisione degli investimenti, delle catene di fornitura e della cooperazione che possono indirettamente sostenere il regime, nonché della fornitura di armi, di carburante per aerei e di flussi finanziari verso la giunta.
Questa misura straordinaria segue anni di violenza crescente e repressione dopo il colpo di stato militare del febbraio 2021. Ne ho parlato con Cecilia Brighi, segretaria generale dell’associazione Italia-Birmania insieme, che ha alle spalle più di vent’anni di lavoro come responsabile dei rapporti della Cisl con l’Ilo, l’Ocse e altri organismi internazionali e con i paesi asiatici, tra cui la Birmania. Proprio di società civile birmana ha parlato ieri alla conferenza TOASEAN, organizzata all’università di Torino dal think tank T.wai.
“È stato un iter molto lungo. Nel 2023 la commissione d’inchiesta voluta dalle organizzazioni sindacali internazionali insieme a quello birmano, che opera in clandestinità ormai da più di quattro anni, ha presentato un rapporto sulle enormi violazioni nel paese delle due norme fondamentali del lavoro – libertà di organizzazione sindacale e contrattazione collettiva e divieto del lavoro forzato”, dice Brighi. “Insieme al rapporto la commissione ha anche stilato undici raccomandazioni, ignorate dalla giunta e dalle imprese birmane”.
A seguito della presentazione del rapporto il consiglio d’amministrazione dell’Ilo ha accolto la proposta dei sindacati di attuare l’articolo 33. “Dopo un anno e mezzo di discussioni e procedure complesse – perché serve il consenso di tutti i governi, di tutti gli imprenditori e ovviamente delle organizzazioni sindacali – il cda dell’Ilo nel marzo scorso ha approvato una bozza di risoluzione da discutere alla conferenza annuale che si è tenuta il 5 giugno a Ginevra e, dopo una discussione che ha visto l’opposizione di Cina, Russia, Laos e le critiche dell’associazione degli imprenditori, finalmente è stata approvata. La risoluzione chiede alle parti dell’Ilo (governi, imprenditori e sindacati) di rivedere i propri rapporti – economici, commerciali e politici – con la giunta militare per evitare che questi possano causare la continuazione sia del lavoro forzato sia della violazione delle norme fondamentali del lavoro”.
Continua Brighi: “Il lavoro forzato è presente in molti settori produttivi in Birmania, non solo nel tessile e abbigliamento, ed è facilitato dallo stato d’emergenza, ancora in vigore dopo quattro anni dal golpe. Inoltre in 61 township e in tutte le zone industriali c’è la legge marziale, e questo dà la possibilità all’esercito di arrestare le lavoratrici e i lavoratori che secondo loro sono dei provocatori e di condannarli attraverso tribunali militari, dove non c’è possibilità di appello (se non nei casi in cui è comminata la pena di morte)”.
Il risultato è che ci sono centinaia di attivisti sindacali in carcere. “Il lavoro forzato è attuato anche attraverso la coscrizione forzata, anche dei minori. Dato che molte aziende hanno comunicato all’esercito i nomi delle lavoratrici e dei lavoratori, in migliaia, per paura di essere mandati a combattere, si sono licenziati. Alcuni si sono uniti alle forze della resistenza armata, altri sono scappati nella vicina Thailandia, dove rischiano di finire nella trappola del traffico di esseri umani o di essere sfruttati nelle fabbriche tessili locali, dove sono impiegati informalmente”.
In zone come Mae Sot o Chiang Mai, dove si concentrano i profughi birmani (sono ormai tre milioni), spiega Brighi che il sindacato offre formazione sulle norme tailandesi perché evitino il più possibile lo sfruttamento: “Questa fuga di massa crea in Birmania una crisi occupazionale nel settore dell’abbigliamento che ricade su chi è rimasto e deve fare gli straordinari per completare gli ordini: una catena che aumenta i livelli di sfruttamento mentre l’associazione degli imprenditori birmani del settore, che già esporta in Europa più di due miliardi e mezzo di euro all’anno, quest’anno ha deciso di raddoppiare, arrivando a cinque miliardi”.
“Quanto alla violazione delle norme, basti pensare che trecentomila lavoratori del pubblico impiego sono stati licenziati perché si erano opposti alla giunta e avevano partecipato al movimento di disobbedienza civile dopo il golpe. Cinquantamila operatori sanitari sono stati licenziati per lo stesso motivo, e in occasione del terremoto del 28 marzo questo è emerso in modo drammatico perché mancava il personale medico e sanitario, che tra l’altro era stato formato proprio per rispondere alle emergenze. Dunque si sono trovati con gli ospedali chiusi, senza personale o distrutti, in una situazione di duplice crisi”.
Com’è possibile che ci siano imprese europee, e italiane, che continuano a fare affari in Birmania, data la situazione?
“Nel settore dell’abbigliamento ci sono moltissime imprese, anche italiane, che continuano a lavorare con le aziende birmane nonostante non possano attuare la due diligence, le condizioni di lavoro siano estremamente pesanti e i salari siano da fame (circa 2,60 euro al giorno per 12 ore di lavoro). E poiché c’è il coprifuoco molto spesso, se ci sono straordinari (non retribuiti) da fare, le lavoratrici rimangono a dormire nello stabilimento. Le aziende italiane che lavorano lì sono prevalentemente aziende del tessile-abbigliamento. Quest’anno l’Italia ha importato più di due miliardi di prodotti, incluse calzature e accessori. Queste aziende sono spesso delle scatole commerciali, che hanno tutta la produzione all’estero ed è quindi più difficile arrivare a discutere con loro. Abbiamo presentato un complaint nell’aprile del 2023 al ministero del made in Italy e giace ancora lì in attesa di una risposta. Migliorare le condizioni di lavoro nel settore sembra impossibile, anche se l’Ue ha sempre detto che questa era una condizione fondamentale per permettere alle aziende di continuare a fare affari nel paese asiatico. Un gruppo di imprese europee legate alla camera di commercio europea in Birmania ha firmato una dichiarazione in cui si riconosce che i salari sono troppo bassi e che stanno riducendo le lavoratrici alla fame, anche a causa della crescente inflazione, e si sono impegnate ad aumentarli. Questa cosa l’hanno fatta in un’azienda, ma solo formalmente. Nell pratica non è cambiato nulla e soprattutto l’operaia che in quell’azienda si occupava di verificare i livelli di due diligence è stata licenziata”.
Perché l’Ue non ha mai chiesto alle aziende di lasciare la Birmania e di smettere di far guadagnare la giunta?
“La motivazione formale è che le imprese di abbigliamento europeo aiutano le lavoratrici birmane a sopravvivere alla crisi generale in cui versa il paese, dove ci sono tre milioni e mezzo di sfollati. In realtà non l’ha fatto perché gli interessi economici in gioco sono tanti. La risoluzione dell’Ilo dà la possibilità di sostenere attivamente i lavoratori e i sindacalisti che devono uscire dal paese e quindi vanno tutelati. Quest’anno grazie al sindacato birmano alla conferenza hanno partecipato anche i rappresentanti degli imprenditori democratici. Si è formata un’organizzazione di imprenditori che si erano opposti alla giunta e che si sono impegnati a rispettare i diritti fondamentali del lavoro e i diritti umani. C’è stata una rappresentanza tripartita formata da governo di unità nazionale (che riunisce l’opposizione alla giunta), imprenditori democratici e sindacato, che ora lavoreranno insieme per provare a cambiare le cose. La risoluzione non obbliga i paesi a fare nulla, ma chiede alle parti coinvolte di mobilitarsi. Quindi anche i sindacati dei paesi dove ci sono aziende che investono in Birmania direttamente o indirettamente dovrebbero impegnarsi a chiedere di rispettare le norme o di uscire dal paese nei casi in cui la due diligence non può essere attuata”.
Intanto la guerra civile continua, qual è oggi la situazione sul terreno?
“La giunta ora controlla solo il 21 per cento del territorio, quindi l’unica cosa che può fare è creare un clima di terrore bombardando non le zone militari dell’opposizione armata ma scuole, ospedali, chiese, monasteri; ora addirittura prendono di mira le feste di matrimonio, per cui uccidono contemporaneamente decine di persone. La finestra delle possibilità per la resistenza democratica si chiuderà definitivamente a dicembre o gennaio, quando la giunta ha annunciato che si terranno le elezioni. Secondo la costituzione del 2008, che prevede che il 25 per cento dei parlamentari siano scelti dall’esercito, alla giunta basta avere l’8 per cento dei seggi per raggiungere il 33 per cento necessario per formare il parlamento. Se la giunta indice le elezioni anche solo nelle zone che controlla – dicevamo il 21 per cento del territorio – ci riuscirà. Quindi anche se ci sarà solo il 33 per cento dei parlamentari eletti, l’Asean (l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico) è già pronta a salutare il ritorno di un finto governo civile in Birmania; anche Cina, Russia e India sono pronte a riconoscere la validità delle elezioni, quindi per l’opposizione sarà molto più difficile recuperare e vincere, pur controllando la maggioranza del paese”.
Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.
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