07 gennaio 2022 12:55

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica.

Tornando molto indietro nel tempo con il pensiero, immagino il mio magazzino personale dei ricordi come un gurtožitok (lo studentato, la casa dell’operaio o il condominio in cui la cucina, e a volte anche i bagni, sono in comune) e mi vedo vagare in un corridoio in cui il ritmico fruscio dei miei passi è un sottofondo sonoro permanente che mi sono abituata a non sentire. Forse il gurtožitok è diventato una sorta di base per me, perché ci ho vissuto la mia prima infanzia e ora è un posto da cui non posso prescindere. E probabilmente questo tipo di spazialità vissuta nell’infanzia determina la successiva collocazione dei miei ricordi, qui raccolgo storie origliate alle porte di stanze diverse.

All’età di sei anni sperimentai la brutale facilità con cui le istituzioni sociali sovietiche trattavano il dolore: fu quando mia madre, dopo lunghe trattative, propose di farmi i buchi alle orecchie, ma a casa. In preda alla gioia accettai. Mia madre versò dell’alcol in un piattino, lo infiammò e avvicinò un grosso ago di quelli che si usano per cucire la pelle, lo tenne fermo per un po’, poi mi forò il primo orecchio e inserì un orecchino d’oro. Faceva così male che corsi al frigorifero dall’altra parte della stanza e, singhiozzando, rifiutai risolutamente di continuare. Mia madre e mia sorella, appellandosi alla “norma” insisterono perché andassimo avanti: sarebbe stato brutto per una ragazza avere un solo orecchio bucato, come un pirata. Dovetti tornare indietro e sopportare la terribile procedura. Questo secondo orecchio, su cui apparve un cuoricino d’oro dopo che la mia protesta fu soffocata, mi fece male a lungo e si infettò. Il 1990 per me cominciò così.

Fino al 1991 abitammo nel gurtožitok dei ferrovieri proprio accanto alla stazione ferroviaria Poltava-Kyivska di Poltava, nell’Ucraina centrale, e poco dopo ci saremmo dovuti trasferire in un appartamento di tre stanze di un prefabbricato in un nuovo quartiere dormitorio, alla cui costruzione partecipava anche mio padre. Mio padre era un ingegnere delle comunicazioni. Alcuni anni prima aveva preso servizio come secondo lavoro in un cantiere edile, nell’ambito di un programma di sviluppo sociale che permetteva agli operai di ottenere un alloggio. Di quel tempo ho davanti agli occhi l’immagine di papà addormentato. A me e a mia sorella fu ordinato di fare silenzio in casa, di modo che papà potesse dormire. In questa celebrazione del suo riposo c’era una sorta di ritualità: era come se noi proteggessimo l’inviolabilità del suo spazio privato fino a che lui non si fosse ripreso dall’intenso dispendio di energie e tempo. Durava così poco che sembrava che papà con un piede fosse già là, nel futuro che stava per arrivare: ci saremo trasferiti in una nuova casa, sarei andata in prima elementare e tutto sarebbe stato diverso.

Una volta la notizia dell’indipendenza dell’Ucraina raggiunse anche le mie orecchie politicamente insensibili di bambina di sette anni. Ricordo che io e mio padre camminavamo per strada, lontano dal rumore dei treni che passavano, e gli chiesi se fosse una buona cosa l’indipendenza dell’Ucraina. Papà mi rispose di sì.

L’amicizia tra i popoli
La sorella maggiore di mia madre si faceva ancora il nodo al fazzoletto da pioniera, un bel nodo a sfera, io invece non feci in tempo a entrare in nessuna delle organizzazioni giovanili comuniste. La mia prima insegnante, che sembrava una giovane sirena dai capelli lunghi, aveva le unghie lunghe e curate, con una grossa macchia nera su ciascuna, e la sua mano era come un ventaglio con cinque occhi che dirigeva la mia calligrafia verso la “giusta” inclinazione, a destra. Del lato “sinistro” non restavano che storie su Lenin in prigione che faceva calamai con il pane e usava il latte come inchiostro. Da bambina quale ero, prendevo questa storia come quella di un uomo che godeva dell’opportunità di cibarsi della scrittura nelle condizioni a lui più sfavorevoli.

Probabilmente per l’uomo post-sovietico degli anni novanta non esisteva involucro protettivo migliore dell’infanzia. Da bambino sei grato al mondo per ciò che è, non dài giudizi. Percepisci le cose piacevoli come un surplus e quelle dolorose le sposti in avanti, ai primi tempi dell’età adulta. Inoltre la mia famiglia è stata fortunata: i miei genitori lavorarono per due anni nei campi militari del reparto occidentale dell’esercito, che negli ultimi anni era di stanza nella Germania Est. Vivevamo in posti separati dagli altri, sempre tagliati fuori dal resto del mondo tedesco. Ci portavano alla scuola russa in autobus, e a volte riscuotevamo gli insulti dei bambini tedeschi che ci gridavano dietro: “Russische schweine”. Stavamo in un insediamento nella foresta per quasi tutto il tempo, le mogli dei militari insegnavano nella scuola locale, gli studenti provenivano da tutte le repubbliche sovietiche – l’amicizia dei popoli-bambini tradotta nella realtà. Per inerzia tutti chiamavamo il paese natale, quello in cui saremmo dovuti tornare, l’Unione. “Sovietica” era scomparso, il nostro immaginario spostamento dalla patria comune fu graduale. Mio padre dirigeva il cinema, proiettava film per i militari e mia madre riparava le pellicole danneggiate. Era un grande mondo affascinante in una sperduta isola nelle foreste tedesche.

L’avventura tedesca si concluse in estate a Potsdam. Vivevamo in una fatiscente stazione radio, la stazione Volga. Facevo degli ornamenti con i fili colorati che quasi invadevano la stazione, ascoltavo la musica che trovavo, guardavo la tv tedesca senza capire la lingua. Era come se in questa ultima stazione che precedette il ritorno a casa stesse emergendo un corridoio abbracciato dalle inquiete onde del tempo. Per me era una specie di non luogo, e il senso di anonimato di cui era dotato m’insinuò un dubbio: stavo tornando a casa o andando in un nuovo mondo?

Ritorno in Ucraina
Se una volta tornata a Poltava mi sono portata dentro quest’ambivalenza, godevo sicuramente dello status della nuova arrivata, soprattutto per il mio modo di vestire differente da quello locale e per la mia ignoranza dell’ucraino. Un altro periodo per reinventarsi e trovare canali per comprendere una nuova realtà. Ricordo le lezioni di storia in cui non capivo quello che diceva l’insegnante perché non capivo la lingua. Alla fine l’ho imparata e mi sono immersa nello studio.

Nella nostra scuola del quartiere dormitorio avevamo un preside sperimentatore ispirato dall’emancipazione della pedagogia. In classe eravamo solo ragazze, studiavamo programmazione, economia e un mix di scienze naturali, materie che tradizionalmente venivano insegnate agli scolari più grandi. Successivamente ci fecero leggere le testimonianze degli anziani di Poltava sull’holodomor, la grande carestia, imparammo la poesia degli anni venti e trenta dei famosi autori di Poltava vittime della repressione. Non ci insegnarono il nazionalismo e allo stesso tempo non permisero che si tacesse sul terrore in epoca sovietica, dell’Olocausto invece non avevamo un’idea precisa. Io lo scoprii in seguito, preparandomi per le olimpiadi scolastiche e studiando intensamente la lingua tedesca e, di conseguenza, la storia tedesca.

Riassumendo i ricordi della mia infanzia sovietico-non sovietica, mi vedo come la figlia di una famiglia dell’intellighenzia tecnico-scientifica in cui non c’erano dissidenti e che guardava scetticamente il regime sovietico. Una famiglia né religiosa né ideologicamente fanatica. All’età di trent’anni i miei genitori tornarono dalla Germania in Ucraina per reinventarsi come imprenditori nella nuova realtà dell’“economia di mercato”, mentre io e mia sorella dovevamo studiare bene e cercare di “emergere” da sole. Se mi chiedevo chi ero, o se riflettevo sulle cose che non avevo mai avuto nella vita, come la fede in Dio e una qualche tradizione, nascosta o meno, da condividere, mi sentivo persa. E solo con il tempo, grazie alle conversazioni con i coetanei di altre regioni e altri background, mi sono resa conto che le mie origini erano piuttosto sovietiche, almeno rispetto a quell’idea di “uomo nuovo” privato del passato e dedito al futuro.

All’età di diciotto anni ebbi a che fare per la seconda volta con un intervento perfettamente in stile sovietico: quando mi tolsero le tonsille nell’ospedale regionale di Poltava. L’uso della parola colloquiale “togliere” è particolarmente adatto: mi legarono a una sedia, mi anestetizzarono, ma sentivo tutto ugualmente, e con un bisturi rimossero le tonsille. A quanto pare poi dovevo averle sputate fuori. A ogni modo, mentre quei pezzi insanguinati giacevano su un piattino bianco, il dottore fece la battuta che finalmente i cani in cortile avrebbero avuto qualcosa da mangiare. Fu proprio divertente.

Associavo l’idea di disciplina alle strutture sovietiche: in alcuni campi fecero il loro tempo, ma altrove si mantennero più a lungo. Oggi capisco che il controllo e la disciplina di per sé non sono sovietici, possono servire anche ad altri regimi. Tuttavia volevo tagliare i ponti con tutto questo. Soprattutto con il dover essere parte di un mondo assurdo: per esempio, lavorare in un’università dove gli insegnanti rischiavano di essere multati se permettevano agli studenti di frequentare le lezioni dopo il suono della campanella e dove, per inciso, sull’esistenza stessa della campanella non si discute. Ma non è sempre stato possibile fuggire. La mia invenzione di emigrata interna del terzo millennio è cambiata nell’inverno del 2014.

Un altro paese
Era il mio trentesimo compleanno: piazza Maidan quel giorno ha pianto i suoi morti, e la Crimea è stata annessa alla Russia. La vita sembrava la striscia delle news. Modificabile all’occorrenza. Un pezzo della mia biografia, legato ai miei parenti russi e alla Crimea, è stato tagliato. Questi eventi mi hanno fatto capire l’essenza di cose apparentemente elementari: la vera umanità (nel senso di solidarietà umana), la tremenda vulnerabilità di chi si scontra con un apparato repressivo, la solitudine e il reciproco sostegno. Lo dico senza esagerare: l’Ucraina in quel momento è diventata un altro paese. Il peggio era passato in un attimo, poi si è capito che quello era solo l’inizio. Non avendo tempo per sentire il proprio dolore, per sognare cosa e come costruire il domani, le persone si sono mobilitate per immolarsi in guerra.

Persa la possibilità di un rapido balzo in avanti della società e dello stato, è venuto il tempo di una lenta evoluzione che ha preso il nome di riforme e avvicinamento all’Europa, il tutto accompagnato da una potente controrivoluzione causata dall’aggressione russa. Entrambi i processi sono stati alimentati dalla tendenza globale al declino e alla commercializzazione della sfera e del dibattito pubblici. Pochi anni dopo, sull’onda del forte desiderio di rinnovamento post Maidan e per porre fine alla guerra, abbiamo avuto un presidente superstar che ha spavaldamente introdotto l’improvvisazione creativa in politica, dando una boccata d’aria fresca a questo settore. Ma i cambiamenti dettati dalla guerra nella politica di allora sono ancora in corso.

Il passato (il periodo sovietico) ha cessato di essere uno sfondo ed è diventato un nemico. Quanto più feroce è la lotta contro di esso, ben veicolata dal nome del nostro vettore culturale, cioè “decomunistizzazione”, tanto più emerge la repressa oscenità dell’eredità sovietica. Che consiste nel nostro parassitare ancora su di essa, sulle infrastrutture costruite nell’Ucraina sovietica. Lo vediamo chiaramente nella pratica degli sviluppatori che vogliono costruire i loro complessi residenziali dove sono la metropolitana, le scuole e gli asili nido, dove tutte le vie di comunicazione sono pronte a essere consumate dal tempo. Moderni progetti ideologici si stanno insinuando nei luoghi della memoria o della cultura sovietici: la creazione di nuovi spazi simbolici, più equamente distribuiti nelle città, non è prevista.

È arrivato per me il momento di guardare al passato in modo nuovo e di cominciare a capire lo spazio che esisteva da prima della mia nascita, ma solo quello delle persone dotate di uno status sociale: dai miei amici che lavorano nelle università agli artisti, dal precariato culturale agli insegnanti in generale, a chi è nei trasporti e agli operatori sanitari.

Nel settembre del 2021 è morto il famoso artista sovietico e ucraino Florian Jurjev. Era un artista e un educatore poliedrico, fu autore dello stemma di Kiev e di un edificio unico, che tutti chiamano “il disco volante”. Quest’opera d’arte cosmica si trova nei cataloghi di architettura dei paesi occidentali, ma per la modernità ucraina tutto questo non conta. Negli ultimi anni della sua vita, Jurjev, insieme ad architetti e artisti della mia generazione, ha lottato per garantire che il suo lavoro non scomparisse dalla mappa di Kiev. Ora però è completamente accerchiato dal centro commerciale di uno dei più grossi costruttori della capitale. Jurjev, per evitare che ciò accadesse, aveva persino proposto un progetto di compromesso per l’integrazione architettonica tra il suo “disco” e il resto, ma evidentemente il valore del suo edificio, la sua parola di artista o la bellezza del suo nuovo progetto non significavano assolutamente nulla. Il costruttore ha fatto tutto a modo suo, approfittando dell’età e della malattia di Jurjev.

Un passato sconosciuto ci si sta riversando addosso. Lo vedo nelle foto dei corridoi della metropolitana dove hanno sostituito piastrelle d’autore, veri oggetti di design d’epoca, con piastrelle molto più economiche, il cui valore consiste solo nella possibilità per qualcuno di riciclare denaro sporco. Ma allo stesso tempo succede qualcosa che non salta agli occhi, ma è estremamente importante: qualcuno viene a raccogliere le mattonelle scartate per farne un archivio personale. Forse quella nostalgia per la tradizione che avevo da piccola ha finalmente preso forma: è venuto il momento di tendere la mano a coloro che hanno costruito questo paese mezzo secolo fa e di attingere a ciò che del loro tempo si è salvato. E allora, quando mi chiederò chi sono, sarò più onesta e, probabilmente, mi sorprenderò.

(Traduzione di Alessandra Bertuccelli)

Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica. In collaborazione con Voxeurop.

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