La chiamerò Maggie perché somiglia all’attrice Maggie Grace. Io e Maggie ci siamo conosciuti in Turchia, dove eravamo entrambi in vacanza. Lei era con la sua ragazza, durante una pausa dagli studi; io ero con il mio amico, durante una pausa dal mio adorato paese.
All’epoca non sapevo che la sua amica fosse in realtà la sua ragazza. Abbiamo parlato, avevamo interessi simili (più di quanto avrei immaginato), e siccome si era creato un piccolo legame, ci siamo scambiati i contatti. Abbiamo continuato a sentirci, e ho scoperto che lei non era interessata in senso romantico né a me né a nessun altro ragazzo; in realtà questo ci ha resi degli amici migliori e ha fatto sì che ci aprissimo di più l’uno con l’altra. Abbiamo continuato a scambiarci messaggi ed email e per un anno intero tutti i venerdì ci siamo sentiti su Skype.
Quell’appuntamento era sacro, anche se dopo un anno siamo dovuti diventare più flessibili perché i suoi orari erano cambiati.
Le raccontavo della mia Libia e lei mi raccontava della sua Polonia. Parlavamo di filosofia, storia, romanzi, musica e film. Condividevamo i nostri momenti speciali, come quando lei ha adottato un gatto (che odio un po’, è una creatura così egoista, a volte appare sullo schermo e interrompe le nostre conversazioni) o quando ha comprato la sua prima chitarra. Io condividevo con lei i ricordi del mio cane, della mia prima chitarra. Le ho mandato foto da ogni città che ho visitato negli ultimi due anni e lei ha condiviso con me le foto delle città che ha visitato.
Sa che adoro la pioggia e la neve, e io so che lei adora il sole e l’estate. Lei è vegetariana e io sono un divoratore di cibo spazzatura. Mi ha insegnato ad amare lo yoga e io le ho insegnato ad amare i fumetti, ma entrambi amavamo gli Alice in Chains e Jeff Buckley.
È ingiusto odiare un essere umano per i motivi sbagliati: prima conosciamoli, poi sarà bello odiarli per i motivi giusti
L’anno scorso un’ondata di odio contro gli arabi e i migranti ha colpito la Polonia. Conosco la situazione nel paese dai racconti di Maggie e di altri due amici, M e F, che vivono in Polonia dal 2011. Si trovavano lì quando in Libia è scoppiata la rivolta. Non avevano altra scelta, dovevano restare. Poiché non erano qui durante la guerra, non riuscivano a fare i conti con la nuova Libia e hanno preferito restare in Polonia.
Sulla soglia di casa sono comparsi messaggi di odio; la gente ha cominciato a trattarli in modo diverso. Se volete la mia opinione, non mi sorprende che lì ci siano tante persone a cui non piacciono, perché M. può essere davvero uno stronzo soprattutto quando è ubriaco e F. non è famoso per la lealtà nei confronti delle sue ragazze. Ma odiarli solo perché sono musulmani è ingiusto.
È ingiusto odiare un essere umano per i motivi sbagliati: prima conosciamoli per quelli che sono, poi sarà bello odiarli per i motivi giusti, non per il loro aspetto o il loro paese d’origine. Sembra che il mondo si sia diviso in due fronti: ciascuno dei due continua a lanciare pietre dall’altra parte, dove quelle stesse pietre vengono raccolte e usate per costruire un muro. Più il lancio di pietre si fa aggressivo, più alti diventano i muri. E se raccogliessimo quelle pietre e ci costruissimo invece dei ponti?
La maglietta di Superman
Uscire dalla nostra zona di sicurezza (in senso emotivo e fisico) può aiutarci a gettare le basi per quei ponti. È successo a me e Maggie, forse perché eravamo entrambi stranieri in un paese terzo – una sorta di versione turca di Lost in translation – ma ho visto la costruzione di ponti del genere anche altrove.
L’anno scorso mi hanno proposto di girare un documentario sulla piattaforma petrolifera offshore di Al Bouri, che si trova a circa 120 chilometri dalla costa libica ed è gestita dalla Mellitah oil & gas, un consorzio formato dall’Eni e dalla National oil corporation libica. All’inizio ero un po’ nervoso: l’idea di essere circondato dal mare in questa isola creata dall’uomo per dieci giorni non era così allettante. Il mio rapporto con il mare non è esattamente una fobia, ma non lo amo: diciamo che mi trovo a metà tra i due estremi.
Alla fine ci sono andato dopo aver fatto alcuni preparativi: ho messo in valigia la mia maglietta fortunata di Superman. Quando sono arrivato sulla piattaforma è stato orribile, somigliavo a Bambi mentre cerca di alzarsi sulle zampe tremanti, solo che Bambi non doveva tenere in mano una telecamera sforzandosi di non sembrare buffo mentre ondeggiava da una parte all’altra e, cosa più importante, non doveva ripetersi di continuo “non vomitare”. Ci ho messo un giorno intero per riprendere il controllo. Era troppo tardi quando ho capito che non avrei dovuto prendere la maglietta di Superman o quella di Batman; avrei dovuto prendere quella di Aquaman, e solo adesso capisco quanto sottovalutiamo questo grande supereroe.
Abbiamo dovuto visitare più di una nave e più di una piattaforma. Abbiamo usato la Asso Ventinove, una nave italiana per i rifornimenti al largo. Era bellissimo guardare lavorare la gente attorno a me e mi ha colpito il modo in cui italiani e libici comunicavano tra loro. Con poche eccezioni, nessuno dei due gruppi parlava bene inglese, né parlavano gli uni la lingua degli altri. Eppure lavoravano in armonia e riuscivano a capirsi. Quasi senza parlare, usando un misto di parole italiane e libiche, e a volte solo i gesti, si capivano alla perfezione, e si facevano anche tante risate. In quei momenti ho pensato che la lingua non è una vera barriera, così come non lo è la cultura, quando due squadre sono insieme per raggiungere un obiettivo; quando entrambe sanno cosa stanno facendo e si fidano gli uni degli altri, possono stabilire dei legami che vanno oltre la lingua.
Italiani e libici erano lontani dalla terraferma, eppure di tanto in tanto i problemi di terra li raggiungevano ugualmente. Ho sentito molte storie sui gommoni che arrivavano qui. A volte i lavoratori della piattaforma riuscivano a dare una mano, altre volte non arrivavano in tempo.
Mi raccontavano che facevano tutto il possibile, che collaboravano e fornivano i soccorsi necessari fino all’arrivo della guardia costiera. Uno di loro mi ha fatto vedere delle foto scattate tre anni prima, quando sono riusciti a soccorrere una barca: qualcuno l’aveva avvistata e ha contattato una nave per i rifornimenti (di cui non ricordo il nome).
Lontano dalla terraferma
Mi chiedevo perché qui è più facile per la gente comunicare e aiutare altri esseri umani senza chiedersi: “Cosa dovrei fare?”. Forse perché in mare aperto le nazionalità e le differenze spariscono ed emergono i veri legami umani? Perché tutti sanno quanto può essere duro e spietato il mare, e questa consapevolezza crea una forte empatia? Forse abbiamo tutti bisogno di lasciare per un po’ la terraferma, con le sue follie, i suoi politici e i suoi mezzi d’informazione, per diventare una versione migliore di noi stessi.
Non conosco la risposta, ma so che molti dei nostri problemi sono il risultato di un fallimento nella comunicazione. Gli scienziati sognano di stabilire un contatto con gli alieni provenienti dallo spazio lontano, analizzano la lingua delle api e cercano di insegnare agli scimpanzé la lingua dei segni. Ma quando si tratta di comunicare con i nostri vicini sullo stesso pianeta, non ci impegniamo con la stessa passione.
Qui non si tratta di lingua o di cultura. Incoraggio tutti ad avere almeno un amico musulmano, uno ebreo e uno cristiano. A conoscere almeno una persona di cultura diversa, con diverse credenze, proveniente da un paese diverso e con diverse scelte di vita.
Non parlate di religione o di argomenti seri, limitatevi alla conversazione spicciola. Raccontatevi cosa avete fatto durante la giornata. Magari come ha fatto Lilac qui. Ho conosciuto il suo bellissimo blog grazie al mio caro amico americano Jody, che considero il mio maestro Jedi per tutto ciò che riguarda la scrittura.
Di notte apro la finestra
e chiedo alla luna di venire
a premere il suo viso contro il mio
a respirarmi dentro.
Chiudete la porta della lingua
e aprite la finestra dell’amore.
La luna non userà la porta
solo la finestra
Rumi
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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