18 maggio 2018 10:15

Ali Salim Qadarah era un libico che viveva in Mizran street, al centro di Tripoli, e si guadagnava da vivere come elettricista. Un giorno, a metà degli anni settanta, mentre svolgeva dei lavori di manutenzione ordinaria in un albergo, si mette a chiacchierare con un cliente che a un certo punto lo sorprende offrendogli un lavoro, non come elettricista ma come attore. Il cliente era Mustafa Akkad, un regista e produttore sirostatunitense che in quel periodo si trovava in Libia per realizzare il suo primo film, Il messaggio. Ali accettò così di entrare nel cast di quello che è forse il film più controverso della storia del cinema arabo.

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Nei desideri di Akkad il film doveva essere un ponte tra la cultura islamica e quella occidentale, come emerge in un’intervista del 1976: “Pensavo di raccontare una storia che avrebbe costruito un ponte, colmando questo divario con l’occidente”. Paradossalmente il film ha rischiato di non essere realizzato a causa delle divergenze interne al mondo musulmano. La pellicola è stata contestata e rifiutata in tutto il mondo arabo, per due ragioni principali. In primo luogo, come si può raccontare la storia dell’islam se da quattordici secoli nemmeno gli stessi musulmani sono in grado di concordare su una versione unica? In secondo luogo, la tradizione islamica vieta qualsivoglia raffigurazione del profeta, un divieto che si estende anche a tutti i suoi familiari e ai suoi compagni (i primi quattro califfi).

L’aiuto inaspettato
Il regista ha scritto la sceneggiatura consultandosi con diversi religiosi islamici per essere rispettoso nei confronti di tutti i punti di vista e le dottrine. Nel 1971 aveva fatto supervisionare la sceneggiatura contemporaneamente a diverse istituzioni islamiche, rivedendola pagina per pagina. Aveva ottenuto l’approvazione dell’università egiziana di Al Azhar e dell’imam Musa al Sadr, leader dei musulmani sciiti (nel 1978 Musa al Sadr è scomparso assieme a due compagni mentre si trovava in Libia per incontrare Gheddafi. Nessuno lo ha mai più visto). Com’era prevedibile, la sceneggiatura è stata contestata dalla Lega musulmana mondiale della Mecca, ma d’altro canto come si fa a parlare di un film con persone per le quali fotografia e cinema sono proibiti? Oltretutto questo era un film sul profeta Maometto.

La raccolta dei fondi necessari alla realizzazione aveva richiesto qualche anno. Il governo del Kuwait aveva finanziato in parte la produzione, che aveva incassato anche il pieno supporto di re Hassan II del Marocco. Nel 1974 erano cominciate in Marocco le riprese, durate sei mesi. Per il film era stata costruita dal nulla un’intera città e le tecnologie più avanzate di Hollywood erano state portate nel deserto. Tutto però si dovette fermare quando, a causa delle fortissime pressioni del governo saudita, i governi del Marocco e del Kuwait bloccarono la produzione. Nessuno può riprendersi da una simile battuta d’arresto. In modo del tutto inaspettato però il film fu salvato da Muammar Gheddafi, che fornì i fondi necessari permettendo ad Akkad di girare a Tripoli e nei pressi della città desertica di Sabha, offrendo addirittura soldati da usare come comparse nelle scene di guerra.

Ad aggiungere ulteriori complicazioni, il regista lo girò contemporaneamente in due versioni, arabo e inglese, con cast diversi per ciascuna versione. Akkad pensava che non fosse sufficiente doppiare la versione inglese in arabo. Le riprese in Libia andarono avanti ancora per sei mesi, e in quel periodo Akkad incontrò Ali nell’albergo. La parte di Ali non era molto importante. Avrebbe dovuto interpretare Wahshy, lo schiavo che ha ucciso lo zio del profeta Hamza (interpreto da Anthony Quinn nella versione inglese e da Abdullah Ghaith in quella araba). Lo aveva fatto per ottenere la libertà e il suo peso in oro, come gli era stato promesso da Hind bin Othba (Muna Wassef e Irene Papas), una donna della Mecca a lungo avversaria del profeta e che alla fine si convertiva. Ali si vedeva solo in poche scene. Tuttavia, come ha detto qualcuno, non ci sono ruoli piccoli ma solo attori piccoli, e la sua interpretazione è stata significativa e indimenticabile, oltre che molto convincente.

Non solo non si vede mai Maometto, nemmeno la sua ombra. Del profeta al massimo si vede il bastone, o il cammello

A causa dell’impossibilità di raffigurare Maometto e i suoi compagni, lo zio del profeta Hamza e il suo figlio adottivo Zaid sono i personaggi principali. Anthony Quinn ne parla alla rivista People: “Non sono mai stato coinvolto in un film in cui tutti si facevano in quattro come abbiamo fatto noi per la delicatezza della situazione. Le riprese sono durate un anno e con noi c’erano sempre sei importanti religiosi come consulenti. Non solo non si vede mai Maometto, nemmeno la sua ombra”. Del profeta al massimo si vede il bastone, o il cammello. Viene rappresentato sempre attraverso riprese soggettive, gli attori interagiscono con la telecamera come se lui ci fosse. Le sue scene sono accompagnate da un tema musicale speciale composto da Maurice Jarre, che nel 1978 aveva ricevuto una candidatura alla cinquantesima edizione degli Academy awards come miglior arrangiamento originale, un premio che però andò a Star wars, con la colonna sonora composta da John Williams.

Quando il film è stato completato, nel 1976, le polemiche sono montate creando problemi ovunque. Secondo i religiosi sauditi il film aveva distorto fatti storici a favore degli sciiti, insultando personaggi islamici. Contestavano inoltre il fatto che contenesse musica e danza. Gli studiosi di Al Azhar ritirarono l’approvazione concessa in precedenza, dichiarando il film un insulto all’islam. Il film è stato proibito in paesi come l’Arabia Saudita, il Kuwait e l’Egitto. I problemi non si limitavano però ai paesi arabi. Come si legge nel Guardian, Il messaggio ha suscitato controversie negli Stati Uniti quando è circolata la voce che Quinn avrebbe interpretato Maometto. Nel marzo del 1977 dodici membri dell’organizzazione dei Black muslim fecero irruzione in tre edifici di Washington prendendo 149 persone in ostaggio e chiedendo la distruzione del film. Il famigerato assedio di Hanafi finì con la morte di un poliziotto e di un giornalista radiofonico, mentre il consigliere e futuro sindaco Marion Barry fu colpito da un proiettile. Alla fine gli ostaggi furono liberati dopo trentanove ore. Secondo Akkad, “le prospettive di incassi al box office del film negli Stati Uniti non si sono mai risollevate dopo queste sfortunate polemiche”.

Ali, dal canto suo, ha dovuto affrontare un diverso tipo di critiche in Libia. Quando il film fu proiettato, sua madre si arrabbiò cacciandolo di casa. E questo non perché il film non le fosse piaciuto, né perché non le fosse piaciuta la sua interpretazione, ma perché aveva ucciso Hamza, lo zio del profeta. Si era convinta che il figlio lo avesse ucciso davvero. Questo boicottaggio era durato per un po’, finché Ali, come aveva spiegato all’epoca in un’intervista, chiese l’aiuto di religiosi, capitribù e anziani locali per convincere sua madre che si trattava solo di recitazione e non della realtà, e che suo figlio non aveva ucciso nessuno, figuriamoci Hamza.

Dopo Il messaggio Akkad ha prodotto la sua fortunata serie horror di Halloween. Nel 1980 è tornato in Libia per realizzare un altro film epico, anche in quel caso finanziato da Gheddafi. Il leone del deserto raccontava la vita di Omar Mukhtar, il simbolo della resistenza libica contro le truppe italiane di Benito Mussolini, e aveva nel suo cast Anthony Quinn, Rod Steiger e John Gielgud. Stavolta le controversie si sono limitate alla censura del film in Italia, durata fino al 2009, dopo la prima visita di stato di Gheddafi a Roma. Nel 2005, Mustafa al Akkad e sua figlia sono stati uccisi in un attentato rivendicato da Al Qaeda nella capitale giordana Amman.

Vale la pena ricordare una scena di Il messaggio in cui emerge con chiarezza cos’abbia voluto dire Akkad: quando i seguaci di Maometto perseguitati fuggono dalla Mecca, cercano rifugio in Abissinia, un paese governato da un re cristiano, “dove a nessun uomo viene fatto del male”.

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