13 agosto 2018 10:02

Nel viaggio di ritorno dopo il lungo assedio di Troia, il vento costrinse la nave di Ulisse a deviare dalla sua rotta, indirizzandola secondo quanto ci dice Erodoto sulle coste libiche, la terra dei lotofagi. Ulisse inviò degli esploratori in ricognizione.

Questi ultimi incontrarono degli abitanti del posto che li invitarono ad assaggiare la loro pianta misteriosa, il loto. Dopo averlo mangiato gli esploratori dimenticarono le loro case e desiderarono solo rilassarsi, vivere lì e non partire mai più. Ulisse dovette trascinarli a forza sulla nave e incatenarveli per impedirgli di tornare in quella terra.

Oggi la storia è capovolta, tutti cercano disperatamente di lasciare la terra dei lotofagi ma vengono riportati indietro a forza e a incatenati affinché non possano più partire.

La storia della terra dei lotofagi ha continuato a circolare tra invasioni, colonizzazioni e disastri naturali, e quando le persone non sono state costrette a partire a causa di guerre, deportazioni o esilio, ci hanno pensato carestie, siccità ed epidemie. È stato sempre così, perciò per centinaia di anni i libici non hanno avuto a disposizione la scrittura o altri strumenti di documentazione. Vivevano confidando nella narrazione orale come principale, se non unico, mezzo per preservare e trasmettere da una generazione all’altra la loro storia, le loro esperienze e il loro sapere. In un certo senso è come se la nostra storia fosse stata scritta nel vento.

I poemi sono stati uno strumento efficace, e sotto questo aspetto la loro importanza andava ben oltre il semplice valore artistico, essendo una basilare fonte di documentazione storica. Le tribù libiche facevano ricorso ai poemi per descrivere eventi e per rendere onore, denunciare o piangere qualcuno. Uno degli esempi migliori di poesia documentaria è la testimonianza di un poeta libico, Fadil al Shalmani.

Nei primi anni di colonizzazione italiana molti libici accusati di aver combattuto contro l’Italia o di aver appoggiato la resistenza furono spediti in diverse prigioni italiane, soprattutto in Sicilia e nelle isolette circostanti. Il poeta era tra questi esuli e fin dal giorno del suo arresto narrò in versi gli anni della prigionia a Favignana. Oltre a tratteggiare con le sue parole dei vivaci ritratti, registrò i nomi di persone, tribù e luoghi, perciò i suoi poemi sono un raro corpus di testimonianze storiche. I componimenti sono stati raccolti e pubblicati nel 2004.

In carcere, il poeta assiste alle torture e alle umiliazioni subite da uomini che un tempo erano capitribù

Era un agricoltore nato nel 1877 ad Al Murassas, nel distretto di Tobruk. All’inizio dell’invasione italiana, nel 1911, si unì alla resistenza e fu coinvolto in tutte le battaglie che si svolsero a Tobruk. Negli anni successivi andò a Qaminis e qui visse per un po’ prima di essere arrestato.

Nueiji al Shalmani era uno dei leader della resistenza e cognato del poeta. Gli inviò una lettera tramite un viaggiatore che sarebbe dovuto passare per Qaminis e si era offerto di consegnarla. Il messaggero non conosceva né il mittente né il destinatario, e nemmeno il contenuto della lettera. Al posto di blocco posizionato all’ingresso della città gli ufficiali trovarono la lettera, la fecero tradurre e scoprirono che conteneva notizie del movimento di resistenza, oltre a una richiesta di rifornimenti. Arrestarono il messaggero e il poeta, a cui la lettera era indirizzata.

I giorni in cella
Ecco una selezione di alcune tappe della sua storia, di cui ho tradotto i testi. È praticamente impossibile tradurre la poesia orale libica dal dialetto libico a qualsiasi altra lingua, compreso l’arabo classico, senza privarla delle sue potenti immagini, del suo stile e delle sue strutture, delle sue rime e delle sue metriche musicali.

Cominciamo dalla prima notte che il poeta trascorse in cella:

Insonne, la mia mente è confusa e il mio cuore trema, mi sento le viscere ridotte in poltiglia. Qui non ho altri compagni di cella a parte uno, legato a me con una catena, che non smette mai di piangere. Sono in un buco stretto, le pareti mi schiacciano e ogni sera mi tirano su con le mie catene di ferro. Poi mi scaraventano giù come uno straccio. Non possiedo più il mio domani, non è più alla mia portata.

Il poeta chiese al suo compagno di cella, Sharaf Aldeen el Orfey, di raccontargli la sua storia, e lui gli disse di essere stato arrestato a causa di una lettera. Uno sconosciuto gli aveva chiesto di portarla a Fadil al Shalmani, che di fatto non conosceva. Era in viaggio per comprare provviste per la sua festa di matrimonio. Quando il poeta gli disse che la lettera era destinata a lui ebbero un alterco, presto superato. Alla fine si ritrovarono d’accordo sul fatto che quello era il loro destino, e che il volere di dio è inevitabile.

Il numero di detenuti nella cella cresceva, e tutti erano legati alla stessa catena di notte. Tre mesi dopo tutti furono processati sommariamente e condannati a pene comprese tra i dieci e i venticinque anni di carcere, che avrebbero dovuto scontare in Italia.

Temevano il trasferimento molto più del carcere stesso. Il poeta ricordava a se stesso e ai suoi compagni di cella che la vita è questa, un’oscillazione costante tra gioia e dolore, e forse quel destino non era peggiore di ciò che avevano già visto, o di ciò che dovevano ancora vedere. Poi disse della vita:

La vita è così, sin dall’antichità. Strappa le persone le une dalle altre. Sembra sorriderti per un po’, ma alla fine ti volta le spalle. Non ha mai avuto pietà del povero che non possiede nulla e non ha nessuno. Non ha mai avuto pietà di un bambino indifeso a cui rubava il padre e che abbandonava al suo destino. Continua a girare come un vento spietato, e proprio quando dici ‘Ecco una cosa dolce’, l’amarezza già ti serra la gola. Quanti giovani amanti ha colto di sorpresa, nonostante i loro tentativi e i loro sforzi infiniti. Quante ragazze felici, agghindate con i loro gioielli più preziosi e i loro abiti più belli, sono diventate simili a una terra bruciata, con tutti i giorni di tristezza con cui la vita le ha inondate. Quanti nobili comandanti al culmine della loro gloria dalla sera alla mattina vengono cancellati e spariscono senza che di loro resti nulla a parte il ricordo e un sussurro che passa di bocca in bocca: qui una volta c’era un padrone.
Nonostante ciò dio è generoso, dona senza limiti, ha già calcolato i nostri giorni, tutto è già scritto e deciso. Possa egli mandare un disastro su questa terra corrotta e un cannone, roboante e adirato come il tuono, non smetta mai di fare fuoco finché non saranno spazzati via gli italiani con i loro seguaci, che con le loro campagne ci stanno sterminando. Possa dio confermare le mie parole con dei segni, ed eliminare per sempre il loro dominio sulla nostra patria.

Soldati italiani scortano un gruppo di prigionieri a Tripoli, in Libia, novembre 1911. (Biblioteca ambrosiana/De Agostini/Getty Images)

Giunse il giorno della partenza, la sirena della nave risuonò e i detenuti furono radunati e messi in fila, pronti per salire a bordo. Il poeta descrisse quel momento in cui stava in piedi sul molo tra file di volti tristi. La sirena della nave gli sembrava un urlo che lo metteva in guardia da quel viaggio minaccioso. Parlava della nave come se fosse una creatura vivente.

La loro nave ha urlato, mi sta avvertendo, ha intenzione di portarci via dalla terra dei nostri padri. Ci hanno gettati lì dentro, mentre lei raccoglieva le ancore e si preparava a partire. È avanzata come la notte che prende il sopravvento sul giorno, determinata a portarci via, senza alcuna esitazione, senza ripensare alle sue azioni, è andata avanti. Poco dopo non vedevo altro che cielo e acqua, un pesce che saltava e alti marosi. I figli dei nobili soffrivano il mal di mare, erano testimoni di una nuova era che non avevano mai vissuto prima.

(I detenuti soffrivano il mal di mare, non erano mai saliti su una nave prima d’allora).

La nave arrivò a Siracusa. Essendo buono, il semplice agricoltore fraintese ciò che gli accadde appena arrivati. Nei suoi versi parlò dell’ospitalità della gente generosa di Siracusa ma in realtà ciò che descrisse erano le procedure di accoglienza per i nuovi detenuti, a partire dal momento in cui li lavarono e lavarono i loro abiti fino al trasferimento alla destinazione finale. Era stato educato a rendere onore a chi lo ospitava e a essere grato dell’ospitalità ricevuta, perciò interpretava tutto in base a ciò che sapeva.

Arrivammo a Siracusa, il cui popolo è gentile e generoso. È importante apprezzare le buone azioni, anche se vengono dal nemico. Al nostro arrivo ci hanno lavati e hanno lavato perfino i nostri vestiti con il vapore. Uno di loro ci ha mostrato i nostri letti e ci hanno fatto sedere per mangiare. Davanti a noi file di piatti, ognuno aveva il suo, nessuno condivideva il cibo con gli altri.

La mattina dopo lasciarono Siracusa di buon’ora per andare alla stazione ferroviaria. Anche questa era un’esperienza nuova per loro, prima di allora non solo non erano mai saliti su un treno, non ne avevano mai visto uno. Nonostante la sua situazione, prevalse nel poeta il fascino per il treno e per la bellezza della natura e del paesaggio:

Siamo partiti prima dell’alba, legati in gruppo come bestie da allevamento. Ci hanno fatto salire su un vascello, il treno, costruito da un cristiano. Che cosa meravigliosa! Non avevamo mai visto niente del genere prima di allora. Era splendido a vedersi, faceva un rumore simile al ruggito del tuono e si muoveva sulle ruote come un tamburino che fa rullare il suo tamburo. Ha attraversato molti villaggi, un’opera meravigliosa, chiunque l’abbia realizzata è degno della più grande ammirazione. In alcuni villaggi c’erano agricoltori con il capo scoperto, e tutti ci correvano incontro quando ci vedevano, ci attaccavano come se fossero iene imbattutesi in un asino.

(Immaginava che si trattasse di agricoltori visto che non si coprivano il capo, poiché per lavorare nei campi non ci si veste bene. Le persone che li picchiavano in ogni stazione forse avevano perso qualcuno nelle battaglie in Libia).

C’erano alte montagne che sembravano sfiorare le nuvole. Le vedevo, strato su strato. Il treno correva e continuava a urlare come fa un cavaliere durante una razzia. Continuava ad aumentare la distanza tra me e i miei cari, ma avrò pazienza, sono in grado di resistere. Faccio appello alla generosità dell’onnipotente, creatore di tutte le creature, lo imploro, per amore del suo profeta, di farci tornare a casa.

In carcere, nei suoi componimenti successivi il poeta assiste alle torture e alle umiliazioni subite da uomini che un tempo erano capitribù. Descriveva quei cavalieri in patria, il loro eroismo e il coraggio in battaglia, e paragonava quelle immagini alle condizioni in cui si trovavano in quel momento, sottomessi e indifesi. Una delle umiliazioni a cui erano sottoposti era la rasatura della barba agli sceicchi. Pur essendo anche lui un prigioniero sottoposto alle stesse pratiche umilianti, le loro sofferenze lo addoloravano più di quelle patite in prima persona. Era doloroso vedere uomini buoni trattati a quel modo. Avevano vissuto con orgoglio, avevano affrontato le truppe italiane in molte feroci battaglie ed erano riusciti a infliggergli pesanti sconfitte, ma alla fine la potenza delle armi italiane aveva avuto la meglio.

I giorni trascorrevano lentamente e pieni di dolore. Ogni mattina li mettevano in riga per la conta e poi, come si fa con gli schiavi, sceglievano i più forti per costringerli a lavorare. Il corpo del poeta era in carcere, ma la sua anima e il suo cuore continuavano a viaggiare per tornare a casa. In un altro componimento, si rivolse a un uccello:

Oh uccello che voli e vaghi nel cielo, a cui dio ha concesso due ali, avvicinati così potrò raccontarti quello che mi è successo. Io qui sono uno straniero, e tu sei un viaggiatore. Oh fratello ti imploro, vola fino alla nostra patria, porta i miei saluti, che la pace sia con loro, ai forti cavalieri, i protettori delle mandrie nel giorno della battaglia. Porta i miei saluti agli anziani, ai giovani e a chiunque sia loro vicino. Che la pace sia con i vicini dei loro vicini e con chiunque si trovi a portata d’orecchio, e con qualsiasi straniero dovesse di notte intravedere il fuoco del loro accampamento. Porta i miei saluti, che la pace sia con la nostra patria, tutta intera, senza escludere nessuno, nemmeno i cani e i lupi nelle valli. Se dovessero chiedere di me, io sono stremato, il mio cuore è tormentato, ossessionato dal loro ricordo. Da quando non sto più con loro non ho più conosciuto la felicità e le mie gambe non hanno mai camminato. Sono in un buco, sette livelli sotto terra, è buio qui e il sole non si vede.

Poi proseguiva dando notizie di alcuni dei suoi compagni di prigionia, alcuni ancora vivi e altri già morti. Documentava la presenza di detenuti elencandone i nomi completi, quelli delle loro tribù di appartenenza e delle loro famiglie. Pregava dio di mettere fine alla loro tragedia. Nonostante la disperazione più nera, confidava nel fatto che in un modo o nell’altro la salvezza sarebbe arrivata, magari con un’amnistia generale che avrebbe incluso tutti loro. Ed esprimeva un desiderio: “Quando morirò, vorrei stare in un posto da cui poter sentire le preghiere”.

Con il passare degli anni l’angoscia e la rabbia gli riempirono il cuore, e a questi sentimenti dedicò un intero poema. Maledisse Favignana, chiedendo a dio di riversare sull’isola tutta la sua vendetta e di cancellarla dalla faccia della terra, perché il suo popolo non aveva pietà né bontà. Concentrò il racconto su un ufficiale italiano, forse uno dei carcerieri, che continuava a prendersi gioco del poeta offrendogli alcol invece di acqua. Lo stesso ufficiale radunava di continuo i detenuti costringendoli a stare in piedi davanti a lui. Con una penna dietro l’orecchio e i documenti in mano, lui si prendeva gioco di loro elencando punizioni per infrazioni che non avevano commesso e punendoli, nonostante loro negassero con forza, per il solo gusto di farlo. Descrisse inoltre il cibo disgustoso che veniva servito loro, piccole quantità di pasta, pane duro come pietra e pochissima acqua.

Dopo sette anni trascorsi nella prigione di Favignana il re proclamò un’amnistia generale. Insieme a quelli che erano rimasti in vita il poeta fece ritorno a casa, alla sua famiglia e alla sua fattoria. Ogni storia potrebbe avere un lieto fine, a seconda del punto in cui si smette di leggere. Perciò se volete un lieto fine smettete di leggere adesso.

Nel 1929, quando le autorità italiane cominciarono a deportare il popolo della Cirenaica nei campi di concentramento, il poeta, la sua famiglia e tutta la sua tribù furono deportati nel campo di concentramento di El Magrun. Per caso sua moglie era andata a trovare la sua famiglia di origine, che viveva in un’altra zona, perciò lei fu deportata nel campo di concentramento di El Agheila. Cercò di scappare con il fratello, ma le guardie li presero e li uccisero.

Visto che avete continuato a leggere, forse sarebbe comunque un finale migliore sapere che il poeta sopravvisse a tutto questo e morì nel suo letto, all’alba del 21 dicembre 1951, proprio mentre riecheggiava la chiamata alla preghiera, a tre giorni di distanza dal primo anniversario dell’indipendenza libica.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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