08 febbraio 2013 11:53

Dove va l’informazione? Da quando è andata online, se lo chiedono in molti. E nel settore, praticamente tutti. I supporti e il mestiere di giornalista – e anche i lettori – sono cambiati più velocemente dei giornalisti stessi.

La moltiplicazione delle piattaforme – carta, tv, radio, rete, social network – ha provocato un’esplosione dei contenuti e del modo di fare informazione. In meglio ? Mica tanto, ritiene XXI, che ha pubblicato in questi giorni un manifesto che fa molto discutere in Francia.

La prestigiosa rivista di incheste, reportage e ritratti, che i lettori di Internazionale conoscono bene, fa un’analisi lucida dei cambiamenti introdotti da internet nell’informazione: 1. il fatto di poter navigare tra piattaforme e link “ha messo un termine al principio di coerenza della carta stampata”; 2. “sono scomparse le frontiere tra giornalisti ed esperti da un lato e cittadini e testimoni dall’altro, e i secondi partecipano attivamente all’informazione”; 3. il “traffico” è l’unico metro per misurare il successo di un articolo, un tweet, un video eccetera; 4. “si è imposta la figura del giornalista seduto davanti a un monitor, che ‘alimenta’ la conversazione”, a scapito del reporter, che consuma le suole sul terreno.

La maggior parte dei giornali fatica a stare dietro al cambiamento e la loro qualità è peggiorata, osserva XXI: meno storie lunghe, meno inchieste e meno reportage. Gli editori hanno investito sul web, trasferendo capitali e risorse umane verso un’informazione più immediata, più rispondente ai gusti presunti del pubblico e più brava ad alimentare il buzz che il dibattito sociale. Eppure l’informazione gratuita su internet non è ancora redditizia: gli introiti pubblicitari non coprono le spese: solo due siti in Francia, Mediapart e Arrêt sur image, se la cavano. Ma sono a pagamento.

I giornali sono “nella stessa situazione dell’industria siderurgica o tessile: spariscono piano piano, ma inesorabilmente”. E i giornalisti? “Sballottati nella tempesta, sono sottoposti a delle imposizioni paradossali: a degli obblighi contraddittori. Gli si chiede di essere reattivi, di padroneggiare il mestiere, di gestire diverse piattaforme (con il rischio di fare di tutto senza talento), di avere etica professionale e di saper stimolare il traffico online”, scrive XXI.

In questo paesaggio sconsolante, che fare? Una “rivoluzione copernicana”, propone il “manifesto” di XXI. In che modo?

Innanzitutto, puntando più sui lettori che sugli inserzionisti (ed è il modello di XXI, che non ha pubblicità, ma costa 15,50 euro). E qui la rivista cita l’esempio di Internazionale:

un progetto simile al Courrier international francese, ma interamente indipendente, con rubriche originali, più foto, una vera linea editoriale. La rivista organizza un festival a Ferrara. Oltre 60mila persone vengono ogni anno all’inizio di settembre [sic] per incontrare 170 grandi nomi dell’informazione internazionale, fotografi, autori di reportage a fumetti e reporter.

Poi, puntando sui reportage, le inchieste e i servizi fotografici, che “danno un vero valore aggiunto ai giornali”. Inoltre, rimanendo indipendenti dal potere e dalla finanza.

XXI ritiene che la “stampa post-internet” dovrà appoggiarsi su “quattro pilastri”: ogni notizia ha il suo tempo, dal reportage allo scoop; le notizie vanno raccolte sul terreno, non dietro allo schermo; le illustrazioni (foto, disegni, grafici) vanno curate; le notizie devono essere utili e far riflettere, a costo di essere meno numerose.

Insomma, un gran bel programma, con il quale è difficile non essere d’accordo. Ricordare che, quali che siano le tecnologie e le piattaforme, il mestiere di giornalista e l’informazione riposano da sempre sugli stessi capisaldi non guasta.

Eppure il “manifesto di XXI”, come ormai viene chiamato da queste parti, qualche riserva la suscita.

Anzitutto, la rivista cita a modello se stessa – un trimestrale cartaceo venduto a 15,50 euro – facendo astrazione del fatto che nessun mercato può assorbire dieci o cento XXI. È un caso praticamente unico, di gran successo (50mila copie in media), ma difficilmente replicabile. Certo, il fatto che negli ultimi anni siano apparse riviste come Schnock, Charles, Feuilleton, Crimes et châtiments, Alibi, Long cours o Usbek & Rica potrebbe far pensare il contrario.

Poi, quella di Patrick de Saint-Exupéry e Laurent Beccaria, i due padroni della rivista, sembra più una lotta di retroguardia, perché l’informazione è ormai planetaria nei mezzi e nei lettori, e volersi opporre ai cambiamenti introdotti dalla rete fa pensare più alla lotta contro i mulini a vento che a una rivoluzione. La moltiplicazione delle piattaforme è una ricchezza, non un limite. E offre l’opportunità di dare spazio alla creatività, all’audacia e all’originalità. L’informazione scritta vive un momento di passaggio da un supporto – la carta – rimasto invariato in mezzo millennio, verso un altro, per giunta immateriale. È quindi normale che l’adeguamento richieda tempo e che la transizione, proprio perché spontanea, non sia dolce.

Infine il modello di giornalista esaltato da XXI – il reporter – non può rispondere a tutte le esigenze dell’informazione moderna in termini di analisi, distanza, esaustività, expertise. Il reporter può raccontare il mondo, ma qualcuno lo deve spiegare e fornire il background, oltre all’illustrazione. E qualcuno deve ascoltare, interpellare e seguire ciò che i lettori, i colleghi e i citizen journalist diffondono sui social network. A Rue89, dove sono stato embedded per un paio di giorni qualche tempo fa, la fonte principale di notizie è Twitter.

La soluzione alle derive correttamente identificate da XXI sta, secondo me, soprattutto nell’identificare queste derive, riconoscerle e porvi rimedio. Ma adeguandosi al mezzo anziché combattendolo. E non smettendo mai di ricordare che le regole e le funzioni di base del giornalismo – indagare, verificare, incrociare, spiegare, chiarire, illustrare, gerarchizzare, valutare e pubblicare – si devono applicare a tutte le piattaforme.

Gian Paolo Accardo è condirettore di Presseurop.eu

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