05 luglio 2020 15:00

Gli organizzatori dell’Open di Francia di tennis, il celebre Roland Garros, hanno appena annunciato che l’edizione di quest’anno sarà, in tempi di pandemia di covid-19, l’unico torneo del Grande Slam a svolgersi con il pubblico presente sugli spalti.

Prima che Rafael Nadal ne facesse il suo territorio di caccia, vincendo 12 delle ultime 15 edizioni, il Roland Garros era forse il torneo dello slam più propizio alle sorprese. Scorrendo a ritroso l’albo d’oro dei vincitori, dal primo successo di Nadal fino alla fine degli anni ottanta, si trovano nomi relativamente poco noti, di preferenza spagnoli: Gastón Gaudio, Albert Costa, Carlos Moyá, Sergi Bruguera, Andrés Gómez (che nel 1990 sconfisse un André Agassi distratto dall’instabilità del tupé usato per nascondere la calvizie). E infine Michael Chang, vincitore dell’edizione 1989, la più sorprendente dei tempi recenti.

Nato nel New Jersey da genitori taiwanesi, l’allora diciassettenne Chang si presentò a Parigi dopo essere stato, l’anno prima, il più giovane di sempre a raggiungere la semifinale di un torneo professionistico. Lo accompagnavano la curiosità per le sue origini e il suo fisico infantile, oltre ai dubbi sul suo servizio non abbastanza potente. Chang si presentava insomma con un’aura da enfant prodige, ma nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco sarebbe diventato il primo atleta statunitense di origine asiatica a raggiungere una fama planetaria.

Chang superò brillantemente primo, secondo e terzo turno (dominando peraltro un Pete Sampras meno giovane ma anche più acerbo di lui). Ai quarti lo aspettava il cecoslovacco Ivan Lendl, vincitore di tre delle ultime cinque edizioni del torneo. Difficile immaginare un contrasto più evidente. Alto, magro e dal viso spigoloso e glaciale, Lendl era il prototipo del tennista disciplinato, costante, potente e aggressivo. Dava l’impressione del cyborg, soprattutto di fronte al fisico minuto, al viso rotondo e ai capelli nerissimi a caschetto di Chang.

Colpo a sorpresa
La partita cominciò seguendo il copione previsto: Chang tenne bene il campo, ma Lendl dimostrò agevolmente la sua superiorità, vincendo per 6-4 i primi due set. L’americano sembrava sul punto di soccombere, consapevole che avrebbe avuto modo di rifarsi negli anni successivi, vincendo chissà quanti tornei dello slam. E invece accadde esattamente il contrario, sia nella partita sia nella sua carriera. Nel terzo e nel quarto set Chang dimostrò una impressionante capacità di resistenza, vincendoli entrambi per 6-3. Ma nel quinto e decisivo set fu colpito dai crampi. Visibilmente alle corde, cominciò a fermare il gioco appena possibile e a giocare colpi alti e lenti, in preda al dolore e cercando evidentemente di guadagnare tempo e innervosire l’avversario.

Sul momento sembrò che Chang si stesse aggrappando, in modo forse ingenuo, a un sogno sempre più irrealizzabile. Probabilmente era così, ma comunque la strategia funzionò. Le continue interruzioni, il sostegno del pubblico di casa, ma anche la capacità dell’americano di reggere gli scambi molto lunghi – accompagnando ogni colpo con un urlo bellicoso – disorientarono Lendl. Quella che sembrava una partita finita improvvisamente si rianimò, e fu di fatto decisa da uno dei colpi più insoliti e celebrati del tennis moderno.

In vantaggio 4-3 nel set ma sotto 15-30 nel gioco, Chang decise di fare un servizio “a cucchiaio”, dal basso invece che dall’alto. Nel momento di massima tensione emotiva, colpì la palla come si fa durante un riscaldamento o in una partitella tra amici. Tutto regolare, ma totalmente imprevedibile. Il corpo di Lendl rispose a quel colpo, dalla lentezza quasi irreale, nella maniera più logica: attaccando e scendendo a rete. Fu il cervello del cecoslovacco a non rispondere. Perché sul passante di Chang, non irresistibile, Lendl si fece trovare impreparato e non riuscì a ribattere. L’americano conquistò, oltre che il punto, il definitivo e decisivo sostegno della folla.

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Chang vinse quel gioco e quello successivo, strappando una vittoria tanto insperata quanto meritata. Per usare un facile parallelismo, vinse la partita applicando con cinismo, e sistematicamente, l’imprevedibilità teorizzata da Sun Tzu in L’arte della guerra.

Chang, che era sì imprevedibile ma anche un tennista di livello, con una forza mentale straordinaria, non si fermò lì. Aiutato anche dalla fortuna, come accade in tutti i miracoli sportivi, il calendario gli mise davanti Ronald Agénor, haitiano naturalizzato statunitense, ai quarti, il sovietico Andrei Chesnokov in semifinale e infine lo svedese Stefan Edberg: giocatori normali i primi due, numero tre al mondo ma poco a suo agio sulla terra rossa il terzo, sconfitto in finale da Chang in cinque set. Nessun diciassettenne prima di allora aveva vinto un torneo maschile del Grande Slam. Nessuno lo avrebbe vinto in seguito.

Mentre gli Stati Uniti si avviavano a dominare la politica internazionale e anche il mondo del tennis, era un figlio di immigrati taiwanesi a inaugurare l’affermazione di una nuova generazione di dominatori: Jim Courier, André Agassi e Pete Sampras.

Ancora oggi gli atleti di origine asiatica sono pochi nello sport statunitense di alto livello. Per trovare qualcosa di simile, dopo il ritiro di Chang nel 2003, si dovette aspettare la stagione Nba 2011-2012. Allora un altro taiwanese-americano, Jeremy Lin, stupì il mondo della pallacanestro con una serie di prestazioni tanto straordinarie quanto inaspettate, passate alla storia col nome di Linsanity, che fecero impazzire i tifosi dei New York Knicks e scatenarono la curiosità di un paese. Dopo quell’exploit fulminante, Lin è tornato a essere un giocatore normale. Si è costruito una carriera dignitosa ma il suo nome non fa sognare quasi più nessuno.

Chang rimane in quel senso un personaggio fondamentale, capace di fornire una potente smentita allo stereotipo che, negli Stati Uniti ma non solo, vuole gli asiatici più docili, deboli e meno adatti agli sport professionistici. Con esiti anche imprevedibili, come dimostra un articolo del 2008 dell’autore cino-statunitense Huan Hsu, pubblicato sulla rivista Slate col significativo titolo “Why I hate Michael Chang”:

Prima di Chang, sognavamo di diventare Boris Becker, lo smargiasso teutonico che si pavoneggiava sulla linea di fondo sparando un ace dietro l’altro, o Stefan Edberg, lo svedese dalla mascella squadrata, dal gioco offensivo raffinato e dall’invidiabile fidanzata bionda. Ma alla fine ci siamo ritrovati incastrati con Chang, un tizio introverso di un metro e 75 (a essere generosi), cristiano praticante, con un servizio innocuo e capace di strappare il titolo agli Open di Francia con trucchetti da tornei amatoriali […] E come se non bastasse, con una madre dispotica che una volta gli aveva ficcato le mani nei pantaloncini, dopo un allenamento, per vedere se erano bagnati. Durante la Coppa Davis junior! Di fronte ai suoi amici! Becker, dopo il ritiro, ha messo incinta una donna nello sgabuzzino di un ristorante. Quando Chang ha appeso la racchetta al muro, invece, si è messo a studiare teologia all’Università di Biola […] Chang non sfidava gli stereotipi sui cinesi. Semplicemente li portava con sé nell’arena

Se il buon giorno si vedesse sempre dal mattino, Chang sarebbe diventato uno dei più grandi giocatori di sempre. Invece fece “solo” un’eccellente carriera, segnata da importanti vittorie in tornei del circuito Atp (perlopiù sul cemento), una Coppa Davis, altre due finali dello slam (perse entrambe nel 1996, agli Open di Australia e Stati Uniti) e quasi venti milioni di dollari di guadagni in totale.

Ma rimpianti e delusioni, ammesso che ce ne siano, impallidiscono di fronte al suo cammino nel Roland Garros di 31 anni fa.

(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

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